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Opinioni

Fiat: quel che è meglio per il gruppo è ancora meglio per l’Italia?

Sergio Marchionne va ripetendo: “l’Alfa Romeo non è in vendita”. Ma non è detto che la difesa a oltranza dell’italianità di un marchio sia la ricetta migliore per veder tornare a crescere l’economia italiana.
A cura di Luca Spoldi
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Motor Show al Salone di Ginevra 2012

Le cronache politiche confermano ogni giorno di più i sospetti che gli italiani, in fondo, hanno sempre avuto: non c’è più particolare distinzione di “coloritura” politica tra i “fruitori”, in modi propri e impropri, del denaro pubblico. O detta in altro modo: a mangiare ormai mangiano esponenti di destra, sinistra e centro e se la “lezione” della Lega ha un qualche senso state pur certi che finiranno col mangiare anche i rappresentanti del “nuovo” che cerca di sparigliare il tavolo alle prossime elezioni a colpi più di slogan populistici che di concreti programmi economico-politici. Ma tant’è e visto che quasi il 50% degli elettori italiani pare sfiduciato o non saper più a che santo votarsi non stupisce che dall’estero continuino a giungere segnali (ieri da Morgan Stanley, oggi da Goldman Sachs, domani chissà da Credit Suisse o da Ubs) che una conferma dell’attuale esecutivo sarebbe in fondo la soluzione meno traumatica.

Un’ipotesi sottoscrivibile a patto che il mio ex rettore e i suoi ministri “tecnici” riescano realmente a liberarsi dei lacci e lacciuoli che finora ne hanno frenato l’operato per gli interessi (e i veti) incrociati delle mille lobbies, cricche e gruppi d’interessi che faticano a capire che l’economia italiana è da tempo entrata in una crisi irreversibile a meno che non si riformi il modello culturale stesso su cui poggia, dando spazio alla competenza, alla trasparenza, al rispetto delle regole e dei diritti validi per tutti e non solo per alcuni, alla condivisione degli oneri in vista di obiettivi condivisi, che si tratti dell’euro, della futura unione bancaria e fiscale (e pertanto politica) europea o di un modello “alternativo” di sviluppo del Belpaese che personalmente fatico a vedere fuori dall’Europa ma che qualche bello spirito prova ogni tanto a delineare (per la verità mantenendo contorni alquanto sfumati, anche quando a parlarne sono economisti “di chiara fama”).

Per quanto mi riguarda continuo a proporvi casi concreti sperando che accendano se non una discussione almeno una riflessione che possa aiutare il venticello del cambiamento, flebile ma non inesistente. Così vi segnalo che attorno al gruppo Fiat sembra crescere un certo nervosismo, non tanto e non solo in relazione alle presunte richieste da parte del governo e del mondo politico in genere perché Sergio Marchionne tenga fede, in qualche modo, al progetto “Fabbrica Italia” (magari spostandone il costo sulle spalle del settore pubblico, col che avremmo il brillante risultato di finire col far pagare a tutti i contribuenti italiani anche il graduale spegnimento degli impianti italiani, dopo aver contribuito per decenni alla loro crescita e al loro mantenimento a colpi di incentivi vari), quanto in merito all’ipotesi che il gruppo finisca per cedere  qualche asset in cambio dei mezzi finanziari per continuare nella sua trasformazione in un vero player mondiale.

Per riuscire a competere in tutto il mondo Marchionne ha bisogno di tanti soldi, che gli attuali soci di controllo, gli eredi Agnelli, non sembrano né in grado né intenzionati a dare: difficile anche che con questi chiari di luna glieli dia il mercato. Che si provi a cercare una “sponda” pubblica dopo che le avences ai costruttori europei per risolvere “consensualmente” il problema della strutturale sovracapacità produttiva sono state respinte nettamente dai produttori tedeschi è naturale, che accogliere le richieste del manager Fiat possa fare il bene per un settore in cui, come ha ricordato Federauto, è rappresentato all’85% in termini occupazionali da “componentisti, riparatori e concessionari” che nel loro complesso rappresentano l’11,4% del Pil italiano con circa 400.000 addetti (ma aggiungendo anche l’indotto diretto e allargato si arriva a 1.200.000 addetti), è molto meno scontato.

Cosa potrebbe vendere Marchionne per fare cassa e, magari, rafforzarsi in mercati strategici da cui è ancora sostanzialmente assente o molto poco presente, come la Cina? Ad esempio l’Alfa Romeo, visto che il preventivato sbarco negli Usa (previsto entro l’anno) è stato rinviato ad almeno il 2014 a causa della crisi. Crisi che gruppi come Volkswagen (che non ha mai nascosto di essere interessata al marchio di Arese) non sembrano sentire troppo. Volkswagen, attraverso la controllata Audi, sa già bene cosa voglia dire investire in Italia visto che è proprietaria della Lamborghini (dal 1998) e della Ducati (da pochi mesi): due marchi al vertice dei rispettivi settori che portano il “made in Italy” in tutto il mondo, al quale potrebbe affiancarsi l’Alfa Romeo. Sarebbe un problema per Fiat? Forse, se questo significasse maggiore concorrenza nella fascia alta del mercato, dove da tempo il gruppo stenta a mantenere una presenza di una qualche rilevanza.

Ma a quel punto tra Dodge e Lancia si potrebbe aprire la strada a una maggiore integrazione e allo sviluppo “mirato” di alcune piattaforme in grado di supportare lo sviluppo di modelli ad hoc per il nuovo e il vecchio continente (e per l’Asia). D’altro canto i lavoratori del marchio italiano potrebbero godere il beneficio di una proprietà dalle spalle più robuste e con una maggiore e migliore distribuzione (nel caso di Lamborghini ai 6 concessionari italiani si sono affiancati nel corso degli anni decine di dealer in tutto il mondo, tanto che adesso la rete conta su oltre 110 punti vendita nei cinque continenti). Per il governo (tanto per il ministero del Lavoro quanto per il fisco) potrebbe essere a sua volta una soluzione positiva con una base occupazionale più stabile, il mantenimento (o lo sviluppo) di competenze sul territorio nazionale e un consistente flusso di entrate fiscali. Ma Marchionne al riguardo non sembra sentirci e va ripetendo che “l’Alfa Romeo non è in vendita”. Benissimo, speriamo solo che Fiat sia in grado di sfruttare al meglio uno dei suoi marchi più prestigiosi e che per farlo non debba far migrare la produzione all’estero.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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