Arriva a metà giornata la smentita ufficiale di quello che era fin dalla mattinata il pensiero comune in borsa (dove il titolo Fiat stava concedendo il “bis”, salendo di un altro 2%): la Ferrari, su cui Sergio Marchionne ha appena rinsaldato la presa accompagnano dopo 23 anni alla porta Luca Cordero di Montezemolo (per il quale si profila la presidenza dell’Alitalia in versione Ethiad), non farà parte del “polo del lusso” di casa Fca con Maserati e Alfa Romeo, nonostante la “curiosa” coincidenza tra l’avvicendamento tra lo stesso Cordero Di Montezemolo e Marchionne alla presidenza del Cavallino e il possibile debutto (secondo quanto dichiarato in agosto dallo stesso Marchionne) del titolo Fca sul listino di Wall Street.
Anche se la nota di Fiat ribadisce che Montezemolo “lascerà su sua richiesta la presidenza della Ferrari” a conclusione del festeggiamento dei 60 anni di Ferrari in America (appunto il 13 ottobre), la stampa internazionale, che non è solita a usare i riguardi di quella italiana nei confronti del gruppo di Torino, non ha dubbi: “Marchionni ha orchestrato la dipartita del presidente della Ferrari” nota l’agenzia Bloomberg, “tre giorni dopo che il Ceo di Fiat ha criticato le performance in Formula Uno della controllata”. Con la conquista dell’ultima poltrona di peso che ancora gli sfuggiva Marchionne è sempre più “un uomo solo al comando” ed ha “l’ultima parola su ogni pezzo della torta, con la Ferrari come ciliegina” commenta il professor Giuseppe Berta, ex responsabile degli archivi Fiat e profondo conoscitore della galassia Agnelli.
Nonostante la precisazione del gruppo di Torino che il marchio Ferrari debba rappresentare un elemento chiave della strategia di lungo termine di Marchionne per “cambiare pelle” al gruppo italiano e renderlo sempre meno un costruttore di automobili di piccola cilindrata, vendute in prevalenza in Italia e in Europa, e sempre più un produttore di auto di alto di gamma in grado di competere con rivali come Audi e Bmw è evidente. La crisi di domanda che stanno vivendo il mercato italiano e numerosi altri mercati europei ha infatti reso ancora più urgente il riposizionamento di un gruppo che, come altri suoi concorrenti (si pensi a Peugeot o Renault) soffre dei bassi margini e degli elevati costi dovuti a un eccesso di piattaforme, modelli e segmenti di mercato in cui è presente, oltre che della tuttora eccessiva dipendenza da un’area economica, quella europea, che rischia ancora per diversi anni di non dare particolari soddisfazioni.
Nell’ultimo Fiat Day dello scorso maggio il gruppo aveva ammesso di aver finora sbagliato le sue mosse sull’Alfa Romeo accumulando un pesante distacco dai propri concorrenti tedeschi. Per recuperare il distacco Marchionne ha dato vita ad un dipartimento “skunk works” guidato da due ex senior manager Ferrari e che dagli attuali 200 ingegneri dovrebbe salire a 600 entro la fine del prossimo anno), lavorando “senza interferenze dalla “macchina” Fca salvo dove sia richiesto del talento”. Obiettivo dichiarato: lanciare otto nuovi modelli entro fine 2018, avviando la produzione del primo di essi (l’erede dell’attuale Giulietta) entro l’ultimo trimestre del prossimo anno.Più “semplice” il piano per Maserati, marchio di lusso in fase di espansione produttiva grazie anche al nuovo impianto di Grugliasco e alla nuova Quattroporte: entro il 2018 Marchionne vuole coprire “il 100% del mercato del lusso” con tre nuovi modelli che affiancheranno la Quattroporte (Levante, Alfieri e l’erede della Gran Turismo), arrivando a vendere oltre un milione di vetture del tridente di cui 370 mila circa negli Usa e 260 mila circa in Cina (mentre sui cinque principali mercati europei l’obiettivo è di vendere almeno 150 mila Maserati l’anno).
La Ferrari, da parte sua, è un marchio del valore stimato tra i 3,8 e i 5,4 miliardi di euro con multipli di Ebitda (a fronte di una produzione che venisse portata dalle attuali 7 mila a 10 mila vetture l’anno) di “ben oltre 1 miliardo di euro”. Soldi che a Marchionne fanno comodi e coi quali, come già confermava uno studio dell’Università di Duisburg-Essen riferito al primo semestre 2013, il gruppo può sfidare i concorrenti tedeschi. Più o meno. Perché se è vero che Ferrari (all’epoca assieme a Maserati) vantava un Ebit (utile prima delle tasse e degli interessi) per veicolo pari all’11,9% ben superiore a quello medio di Fiat (che alla data dello studio ancora perdeva in media l’1%), è anche vero che tale margine è più vicino a concorrenti come Audi (10,5%) e Bmw (9,8%) e non molto oltre i livelli di Huynday (9,3%) e Toyota (9%) che non Porche (18,4%).
In più con Chrysler, che di suo guadagnava 768 euro per vettura venduta, pari ad un Ebit del 3,7% (distante dal 5,2% di General Motors e dal 4,9% di Mercedes, ma allineato al 3,7% di Ford, che conla sola Ford Europa perdeva il 5,7%) Marchionne, sempre più “tentato” secondo alcuni dal mollare la parte italiana di Fiat, ha già posto una prima importante pietra per risanare i conti del gruppo per quanto riguarda la produzione maggiormente “di massa”. Non altrettanto può dire di aver fatto Montezemolo, che deve probabilmente la sua lunga permanenza ai vertici del Cavallino più alle solide relazioni da sempre intrattenute con gli Agnelli più che ai risultati ottenuti come manager (inferiori complessivamente a quelli di Marchionne oltre che “inaccettabili” dal punto di vista sportivo in questi ultimi tempi secondo lo stesso numero uno di Fca).
Del resto anche al Montezemolo-imprenditore non sembra arridere molta fortuna: la Nuovo Trasporto Viaggiatori, società di cui Montezemolo è consocio con Diego Della Valle, Gianni Punzo, Intesa Sanpaolo e Generali, ma che vede anche Bnl-Bnp Paribas, Mps e Banco Popolare tra gli azionisti minori e che gestisce i treni veloci Italo, ha perso solo lo scorso anno 77,6 milioni su un fatturato di 239 milioni e dopo una prima iniezione di 85 milioni di euro (che però è costata a Montezemolo, Della Valle e Punzo solo 9 milioni di euro a testa) sembra dover procedere a un ulteriore aumento di capitale di importo analogo o superiore (si parla di un centinaio di milioni di euro) per far fronte alle perdite e ad un indebitamento pari a 668 milioni, di cui 400 milioni nei confronti di Intesa Sanpaolo, 175 milioni verso Mps, 95 milioni col Banco Popolare e 18 milioni con Bnl Bnp Paribas. Milioni prestati forse con eccessiva disinvoltura vista la rischiosità di un business in competizione con un ex monopolista come Trenitalia.
Ad ogni modo Montezemolo non correrà rischi per quel che riguarda il futuro stipendio (se diverrà presidente di Alitalia) o la pensione (se non dovesse trovare nuovi incarichi), come invece la maggior parte dei lavoratori italiani. La liquidazione da parte del gruppo Fiat dovrebbe essere nell’ordine di svariate decine (o persino qualche centinaia) di milioni di euro. Anche solo considerando la sua lunga militanza nel gruppo e il suo livello di remunerazione (tra i 5,5 e i 6 milioni di euro l’anno) non se ne andrà senza un assegno minimo di una ventina di milioni. Vista la sua relazione con gli Agnelli (che alla fine secondo la stampa italiana potrebbero anche decidere di tenersi il “giocattolo” Ferrari nel caso di una futura definitiva “americanizzazione” di Fca, ad esempio con l’ingresso di una serie di grandi fondi a stelle e strisce pronti a rilevare parte della quota finora in mano agli eredi dell’Avvocato) e i tanti “segreti” industriali e commerciali di cui è certamente a conoscenza è tuttavia probabile che come molti altri “grandi” manager e banchieri italiani si veda riconoscere un sostanzioso “patto di non concorrenza” con cui rimpinguare l’assegno medesimo, indipendentemente dai meriti dimostrati nei bilanci della società da lui diretta.