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Fiat: cosa potrebbe andare storto (ma anche no)

L’accordo tra Fiat e Veba per rilevare le quote di minoranza di Chrysler è certamente importante, ma non tale da sgombrare il terreno da ogni dubbio circa il destino del gruppo italiano…
A cura di Luca Spoldi
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Che il destino di Fiat sia sempre più legato agli Stati Uniti e al rilancio di Chrysler i miei lettori lo sanno da tempo. Che l’accordo annunciato in queste ore che consente, per complessivi 4,35 miliardi di dollari di cui 1,9 miliardi rappresentati da un dividendo straordinario che Chrysler distribuirà solo a Veba utilizzando la propria cassa (mentre dalle casse Fiat usciranno nell’immediato altri 1,7 miliardi, con ulteriori 700 milioni di dollari di contribuzione al fondo pensione che Chrysler verserà in quattro tranche da 135 milioni di dollari a partire dal closing, previsto il prossimo 20 gennaio), rappresenti un passaggio importante e positivo per l’azienda e il suo numero uno è altrettanto certo, se non altro perché negli ultimi tempi Marchionne aveva capito che doveva alzare la posta e agli iniziali 4-4,2 miliardi di dollari doveva aggiungere ancora una manciata di milioni per fare contenti tutti o quasi.

Tralasciamo per un istante i possibili contraccolpi sull’organizzazione produttiva del gruppo, in particolare in Italia, dato che questa risente non solo delle decisioni di Fiat in termini di investimenti ma anche dello scenario macro e dell’impatto delle politiche fiscali e monetarie sulla domanda aggregata e sulle condizioni di accesso a nuovi finanziamenti. A storcere il naso potrebbero essere le agenzie di rating e nessuno potrebbe dirsi “stupito” nel caso il merito di credito di Fiat (e di Chrysler) fosse messo quanto meno sotto esame. Già a inizio ottobre l’agenzia Fitch in un report aveva segnalato come il rating potesse dipendere “in ultima analisi dalla possibilità per Fiat di accedere alla liquidità di Chrysler senza restrizioni”, liquidando il socio di minoranza (Veba) e rinegoziando i debiti del gruppo americano. Partiamo dai dati di bilancio: a fine settembre Chrysler aveva in cassa liquidità ed equivalente per 9,5 miliardi di euro (300 milioni meno di fine 2012, in gran parte per i costi legati al lancio della nuova Jeep Cherokee) e Fiat per 10,7 miliardi (da 11,1 miliardi).

Finanziare l’accordo evitando il ricorso a un nuovo aumento di capitale (che qualcuno ipotizzava attorno a 1-1,5 miliardi di euro) non dovrebbe dunque essere un problema, “stricto sensu” e questo è positivo per il gruppo italiano, come è positivo che non si sia arrivati ad un'Ipo di Chrysler prima dell'accordo. Semmai i problemi, emersi già nelle ultime presentazioni come quella di Goldman Sachs a Londra il 5 dicembre scorso, sono legati alla persistente debolezza della domanda in particolare in Europa e alla frenata in corso in America Latina che rischiano di indebolire il bilancio e indurre gli analisti delle agenzie di rating a limare ulteriormente il giudizio sul merito di credito (che per Fitch è già “BB-”, un gradino sotto l’investment grade). Il giro d’affari di Fiat-Chrysler nei primi nove mesi del 2013 è infatti risultato pari a 62,815 miliardi di euro (dai 62,182 miliardi di un anno prima), mentre il trading profit (utile della gestione ordinaria) è calato  a 2,463 miliardi (da 2,654 miliardi) e l’utile netto a 655 milioni (da 672 milioni), con un indebitamento netto industriale salito a 8,3 miliardi contro i 6,5 miliardi di dodici mesi prima.

Sul fronte dei flussi di cassa nei primi nove mesi dello scorso anno Fiat (esclusa dunque Chrysler) è passata da un dato negativo di 1 miliardo di euro a uno positivo di 800 milioni, mentre il gruppo americano, impegnato nel lancio del nuovo modello Jeep Cherokee ha visto la cassa generata da attività operative andare a coprire tutte le esigenze in termini di capex (investimenti) a quota 2,7 miliardi di euro. Così non sono stupito che nel complesso, secondo gli analisti di Kepler Cheuvreux  (che stamane hanno alzato il target price del titolo Fiat da 4,4 a 5 euro per azione, confermando però il giudizio di “reduce”, ridurre), l’accordo annunciato oggi sia giudicato positivo, ma non in grado di risolvere i problemi legati all’elevato indebitamento industriale del gruppo, ritenuto insostenibile a lungo termine data l’attuale generazione di cassa e che anche gli analisti della casa francese siano preoccupati dal calo dei volumi di vendita in America Latina nel terzo trimestre 2013 (e dei segnali di ulteriore debolezza già emersi nel quarto trimestre dell’anno).

Già dalla presentazione di Goldman Sachs emergevano del resto altri punti interrogativi: in Europa la pressione sui prezzi appare destinata a rimanere intatta, visto anche che la politica fiscale non sta mutando significativamente (né lo scenario economico, aggiungo io, per quanto stamane i dati relativi all’indice Pmi manifatturiero di dicembre in Eurolandia abbiano offerto qualche modesto segnale di ripresa per Spagna e Italia). In più Chrysler, che necessita tuttora di rinnovare la gamma per recuperare appetibilità agli occhi dei consumatori rispetto ai principali concorrenti avendo cercato di risparmiare più cassa possibile durante la crisi 2007-2009, potrebbe continuare a registrare margini di profitto inferiori ai concorrenti (quasi certamente nell’intero 2013 e forse anche nel 2014).

E visto che Chrysler sta de facto replicando la “ricetta Marchionne” adottata per Fiat fatta di pochi modelli “premium” (per il marchio Jeep) e di un allargamento della gamma di più economici modelli mass market (a marchio Ram), così come in Europa si è scommesso sull’accoppiata Fiat (500 e dintorni) per il mass market e Alfa Romeo/Maserati per la parte medio alta-alta di gamma, qualche dubbio anche sui margini di Fiat potrebbe essere lecito, tanto più che il mercato dell’auto in Europa (e ormai anche in Brasile) non è esattamente come in America. Per farcela a voltare pagina Fiat deve dunque incrociare ancora le dita: Chrysler deve riuscire a incontrare il favore dei consumatori americani, la Fiat deve sperare che la 500 possa diventare realmente un successo mondiale e che Maserati (e forse Alfa Romeo) torni ad essere un marchio apprezzato e in grado di fare volumi consistenti nel segmento alto/lusso.

Non solo: la ripresa europea, anche grazie a maggiori esportazioni extra-Ue, dovrebbe portare ad un incremento dei volumi produttivi a partire dal 2015 (prima sarà difficile) che consenta di tornare a operare in situazione di pareggio di bilancio a livello operativo anche negli stabilimenti del vecchio continente. Nel frattempo Marchionne dovrà continuare a rinnovare gli impianti (di Chrysler e di Fiat) in giro per il mondo, oltre che in Italia, sperando che i sindacati gli vengano incontro. Se per qualsiasi motivo non lo dovessero fare i margini del gruppo, già inferiori ai concorrenti, potrebbero scendere ulteriormente e il rinnovamento della gamma farsi ulteriormente difficoltoso. A quel punto se qualcosa andasse storto il rischio che il gruppo divenga preda di qualche concorrente sarebbe nei numeri più che nelle opinioni degli analisti finanziari come il sottoscritto.

Naturalmente potrebbero verificarsi anche sorprese positive (da una buona accoglienza dei nuovi modelli dell’Alfa Romeo a un rilancio della scommessa anche in Cina), in grado di controbilanciare i rischi di cui sopra, o qualche passo falso dei diretti concorrenti che ridiano spazio al gruppo italiano. Ma qui siamo nel campo delle pure ipotesi (e non sto tenendo conto neppure di altri dettagli pure importanti, dal destino del marchio Lancia all’introduzione di una nuova generazione di motori e trasmissioni, elementi cruciali per il successo di nuove vetture che pure richiederanno investimenti non trascurabili) per cui è forse meglio attendere la presentazione del nuovo piano industriale quinquennale, che dovrebbe avvenire in contemporanea con l’annuncio dei dati di bilancio 2013. A quel punto, forse, anche i signori del rating decideranno cosa fare.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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