C’è stato in Italia un tempo in cui Fiat e Confindustria (l’associazione degli industriali italiani) sono stati quasi un sinonimo, quello in cui Giovanni Agnelli, “l’Avvocato” per autonomasia, ne divenne presidente (nel 1974) per poi scegliere solo due anni dopo il suo successore (Guido Carli, da pochi mesi dimessosi da Governatore della Banca d’Italia). Scordatevi quel periodo, che coincide con la fase terminale del “miracolo economico” italiano, ricco più di inflazione e scontri sociali che non di successi economici: ormai tra gli eredi Agnelli ed esponenti di spicco di Confindustria, da Diego Della Valle a Guido Barilla, è sempre più spesso scontro aperto, con un’accusa che va al di là del singolo imprenditore (John Elkan) o manager (Sergio Marchionne), quella di aver usato Confindustria come “uno strumento” e di averla poi “mollata” (dal primo gennaio 2012) nel momento in cui non gli è più servita.
Una rottura conseguenza di “logiche aziendali che seguono un’altra strada”, ha fatto notare Guido Barilla in un’intervista a Giovanni Minoli a Mix24. Decisioni legittime, ha aggiunto a scanso di equivoci Barilla, secondo cui “Fiat ha diritto di fare le proprie scelte e diventare più competitiva”, a patto, aggiungo io, di non stupirsi se nel paese cresce il senso di insoddisfazione riguardo la politica del gruppo di Torino, che al momento si traduce in investimenti industriali in calo (dai 19,7 miliardi che secondo il programma “Fabbrica Italia” avrebbero dovuto essere investiti tra il 2010 e il 2014 si è scesi alle previsioni di 9 miliardi di investimenti che il futuro piano industriale dovrebbe meglio dettagliare a maggio) e crescenti tensioni tra i consoci di Rcs MediaGroup, holding editoriale cui fa capo il Corriere della Sera a cui lo stesso John Elan vorrebbe secondo molti conferire La Stampa per creare un polo editoriale in cui Fiat continuerebbe a recitare il ruolo di azionista di controllo “di fatto” se non “di diritto” (il gruppo torinese al momento ha una partecipazione del 20,552% nel capitale dell’editore milanese).
Scelte legittime, dunque, che però si pagano: continuando ad addebitare ad una peraltro evidente crisi della domanda italiana ed europea (figlia di una “stretta fiscale” su input tedesco che ha finora pesato soprattutto sul Bel Paese) la decisione di rinviare continuamente nuovi investimenti, Sergio Marchionne ha giocato la carta Chrysler, che nel terzo trimestre 2013 ha consentito al gruppo di registrare un utile della gestione ordinaria di 3,39 miliardi di euro, a fronte di 246 milioni registrati escludendo Chrysler e di far salire i ricavi netti da 35,59 a 86,82 miliardi circa. Se il futuro di Fiat è sempre più americano come detto tante volte, non deve però stupire che in Europa la quota di mercato continui a calare (a fine gennaio è scesa al 6,2% contro il 6,6% di un anno fa) e le vendite ristagnino (le immatricolazioni in Europa il mese scorso sono calate dell’1,8% nonostante il mercato sia aumentato nel suo complesso del 5,2%), anche perché Fiat, con Peugeot, è tuttora maggiormente esposta al segmento medio-basso del mercato, dove la concorrenza è maggiore e i margini di profitto più limitati.
Allo stesso tempo il tentativo di “presidiare” i media italiani senza impegnare eccessivi capitali sta comportando notevoli tensioni nell’ex “salotto buono” di Via Rizzoli: se con Della Valle (socio all’8,995%) la tensione, divampata in questi giorni, era da tempo latente, almeno da quando “Mr Tod’s” ha iniziato a esprimere perplessità nei confronti dell’operato dell’attuale amministratore delegato (su “imprinting” Fiat), Pietro Scott Jovane, con l’uscita di Carlo Pesenti (socio al 3,824%) dal Cda del gruppo editoriale la frattura coi “soci amici” storici pare ormai totale, dopo che già i Ligresti (soci al 5,46%) sono usciti di scena a seguito dell’assorbimento del loro ex impero (cui faceva parte Fondiaria-Sai, nata dal conferimento da parte di Mediobanca, nel 2002, di La Fondiaria alla Sai, a sua volta fondata dal senatore Giovanni Agnelli negli anni Venti del secolo scorso e poi venduta al finanziere Raffele Ursini nel 1976 e da questi poco dopo ai Ligresti) nel gruppo Unipol (attuale socio di Rcs col 5,651%).
Il tentativo degli eredi Agnelli di fare i “re senza denari” e forse qualche operazione tra “parti non correlate” non del tutto esente da critiche (come sembrerebbe essere il caso dell’acquisto da parte di Rcs del 51% di Hotelyo dal gruppo svizzero BravoFly Rumbo, piuttosto che di un ramo d’azienda di Neomobile Gaming da parte di Rcs Gaming, entrambe attività indirettamente partecipate dalla Lamse di Andrea Agnelli che avrebbero destato l’attenzione della Consob), sembra destinato a incrinare rapporti consolidati tra le principali famiglie del capitalismo italiano, almeno quanto il tentativo di ridurre l’esposizione del gruppo Fiat al mercato italiano rischia di accentuare la distanza tra il gruppo di Torino e la politica italiana. Con inevitabile contorno di “sassolini” che qualcuno sta già iniziando a togliersi dalle scarpe.