E se alla fine la banca centrale americana, la Federal Reserve, non alzasse i tassi neppure a dicembre? Dopo settimane passate ad analizzare ogni virgola dei discorsi pubblici e delle minute delle riunioni del Fomc (Federal open market committee, il comitato cui spetta decidere i tassi ufficiali sui fondi federali Usa, i Fed Funds) il mercato ha avuto in queste ultime ore un paio di sorprese piuttosto contraddittorie.
Anzitutto proprio dalle minute dell’ultima riunione del Fomc è emerso come la divisione fra i suoi membri è ancora molto forte, con tre componenti che già a settembre chiedevano un immediato rialzo dei tassi e gli altri nove membri favorevoli al mantenimento dello status quo.
Al momento il mercato stima che vi sia una possibilità del 60% che a dicembre la banca centrale Usa alzi di un quarto di punto i tassi, cosa che farebbe bene sia alle banche, contribuendo a rialzare il margine d’interessi e dunque a migliorarne la redditività, sia alle assicurazioni, che investono la propria liquidità tipicamente in titoli di stato e quindi potrebbero incassare un flusso più consistente di interessi.
Contro l’ipotesi di un rialzo dei tassi gioca tuttavia il timore che l’economia mondiale non sia poi così forte nonostante siano ormai sette anni che le banche centrali di tutto il mondo si danno da fare per sostenerla. Il campanello d’allarme viene ancora una volta dalla Cina: a settembre le esportazioni di Pechino hanno registrato un calo del 10% su base annua, contro attese di -3% e dopo che l’export era già calato del 2,8% in agosto. In calo anche le importazioni, scese dell’1,9% il mese scorso contro attese di +1%.
Settembre è così risultato il settimo mese consecutivo di contrazione delle esportazioni cinesi e se la notizia potrebbe far felice qualche politico populista abituato ad additare alla globalizzazione la causa di tutti i mali del mondo, in realtà ciò che preoccupa gli investitori razionali è che se i cinesi esportano meno è perché europei e americani comprano sempre meno.
Da questo empasse, che potrebbe tradursi, a seconda dei dati che usciranno da qui a fine anno, in uno scenario in cui i tassi aumentano mentre la crescita sta già nuovamente rallentando (col rischio di un effetto pro-ciclico, dunque in questo caso negativo), oppure solo nell’ennesimo rinvio della graduale “normalizzazione” dei tassi americani, come scommettono gli analisti di Denske Bank, e pertanto a maggior ragione della successiva “normalizzazione” della politica monetaria della Bce, rischia di non venire nulla di buono per l’Occidente e per l’Italia in particolare.
Tassi bassi per un lungo periodo, in uno scenario di inflazione che permane bassa (0,7% annuo in Germania) o nulla (in Italia) possono far comodo a chi ha contratto debiti a lungo termine a tassi vantaggiosi, magari variabili, ma tendono a rinviare le scelte di investimento e consumo, agendo dunque involontariamente da freno alla ripresa. Si potrebbe e dovrebbe approfittare per fare “pulizia in casa”, cedendo crediti deteriorati da parte delle banche e ridefinendo i piani industriali da parte delle aziende, ma la cosa ha spesso oneri sociali ed economici di breve periodo che inducono a “spalmare” su più anni l’azione di pulizia e ristrutturazione.
Le conseguenze son ben note agli italiani, che da oltre 15 anni si sono scordati ogni reale crescita economica. In questa situazione la politica fiscale dovrebbe farsi anticiclica, dunque espansiva, come effettivamente da un anno o due si sta provando a fare in Europa e anche in Italia. In Italia tuttavia non volendosi o potendosi toccare le principali voci di spesa pubblica la politica fiscale espansiva è stata fatta da un lato aumentando il debito, dall’altra cercando di finanziare alcuni “alleggerimenti” con maggiori inasprimenti fiscali, di fatto realizzando solo una parziale redistribuzione dei redditi.
Così se ora i tassi dovessero tornare anche in Europa ad alzarsi o quanto meno a non abbassarsi (alcuni segnali si sono visti giusto stamane in Italia, con i Btp a 3, 7 e 15 anni collocati a tassi in lieve rialzo rispetto alle aste del mese scorso), perdurando l’assenza di una significativa ripresa, per la quale sarebbero stati necessari investimenti che non si sono visti oltre a riforme strutturali altrettanto limitate, il “Bel Paese” sarebbe in mezzo al guado proprio mentre l’acqua torna a crescere.
Col rischio che il sollievo di banche e assicurazioni nostrane potrebbe durare molto poco, per il nuovo peggiorare della situazione delle finanze pubbliche e il rischio che ciò comporterebbe in termini di ennesima “stangata” non rinviabile all’infinito in assenza di una rimodulazione e riduzione della spesa pubblica.