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Eurozona in crisi: Berlino è pronta a uscire?

I mercati perdono ancora quota, tardiva presa di coscienza di fronte a una realtà che resta peggiore delle aspettative ma anche segnale di un acuirsi dello scontro in atto all’interno dell’Eurozona tra falchi e colombe. Uno scontro che potrebbe avere un esito clamoroso: l’uscita dall’Eurozona della Germania…
A cura di Luca Spoldi
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I mercati europei chiudono la peggiore settimana da 15 mesi (la quinta consecutiva di ribasso) con investitori che temono che sia giunta ormai la resa dei conti tra speranze e realtà, tra stime e consultivi, tra annunci e numeri: la ripresa resta “lenta” e potrebbe rallentare il ciclo degli investimenti secondo quanto ammette lo stesso Mario Draghi, presidente della Bce, ma questo non è il problema principale. Se Draghi avesse di fronte una platea politica coesa e disposta a sostenere misure pro-crescita (dalle riforme strutturali al lancio di eurobond) la crisi potrebbe restare confinata a qualche settimana negativa sui mercati azionari, mentre così non è e semmai, come ha già ricordato Draghi, sui mercati sinora era ritornata una discreta fiducia che ancora non è tornata (e rischia di non tornare a lungo) nell’economia reale.

Dall’altro lato della barricata Wolfgang Schauble, ministro delle Finanze tedesco, sbuffa: “serve rigore di bilancio”, altro che incentivi alla crescita, il problema è che i conti non sono ancora in ordine con deficit e debiti ancora troppo elevati. E vero, ma i contri di Irlanda, Spagna e Portogallo erano assolutamente in ordine prima della crisi del debito sovrano del 2010 e sono peggiorati rapidamente quando i mercati hanno capito che la realtà era molto diversa da come veniva loro raccontata e che qualcosa (la crescita) non andava come doveva, che il rischio (sovrano e non) era più alto e meno sostenibile di quanto fino a quel momento stimato. A quel punto la “ricetta tedesca” ha solo che creato maggiore scompiglio, imponendo sacrifici forse evitabili (soprattutto se le riforme si fossero fatte nel Sud Europa a tempo debito, ossia nel decennio precedente), ma politicamente paganti (per il governo tedesco di fronte al suo elettorato e per chi anche nel Sud Europa sperava ed è riuscito a scalzare i leader delle maggioranze sino a quel momento esistenti).

Il duello finora in punta di fioretto tra le autorità tedesche e la Bce rischia a questo punto di deflagrare clamorosamente, tanto che da più parti ci si chiede: e se alla fine anziché uno o due paesi più deboli (ciò che resta della Grecia, il traballante Portogallo, la riottosa Italia) ad uscire fosse proprio lei, la “locomotiva” che tanto più non sembra essere, la Germania di Angela Merkel che in questi anni è riuscita ad effettuare una serie di giravolte incredibili senza che nessuno le chiedesse mai di rendere conto ed anzi con l’impudenza da parte dei suoi ministri di ricordare ogni volta che “le regole valgono per tutti”, costi quel che costi, salvo dimenticarsi che nell’ultimo decennio del secolo scorso le regole furono “interpretate” benignamente a favore di Francia (che anche questa volta ha già fatto sapere di non sentirsi obbligata a rispettarle se il prezzo sarà troppo elevato) e Germania (che invocava la “eccezionalità” del momento storico seguito alla riunificazione della Germania Est con la Germania Ovest).

Ma cosa succederebbe se da qui a 3-5 anni, Berlino e qualche altro paese del Nord Europa, come i “falchi” di Olanda e Finlandia, tornassero a un “nuovo marco” o a un “super euro”, lasciando Francia, Spagna, Italia e quanto resta dell’Eurozona “periferica” col vecchio e malandato euro? Visto che difficilmente l’euro potrebbe svalutare dalla sera alla mattina senza innescare contraccolpi a catena su dollaro, sterlina e yen (che già ora hanno smesso di rafforzarsi perché le rispettive banche centrali hanno espresso più o meno apertamente il timore che un eccessivo rafforzamento della valuta sia dannoso per la crescita economica di ciascun paese), sarebbe il “neuer mark” a rafforzarsi. Berlino gongolerebbe per un po’ vedendo crollare le prospettive di inflazione e ridursi rapidamente i flussi di “denaro caldo” che in questi anni si sono parcheggiati sui Bund tedeschi prima e sugli immobili poi. Gongolerebbero anche le aziende italiane, spagnole e francesi che esportano verso la Germania e che vedrebbero regalarsi una boccata d’ossigeno, in attesa la domanda dei mercati emergenti (e dei propri mercati domestici) riprenda a salire.

Qualche azienda tedesca, particolarmente rapida a sfruttare la forza della rinnovata valuta, potrebbe persino portare a termine acquisizioni per ora rimaste solo nel libro dei sogni (Sergio Marchionne probabilmente ha ragione a pensare che da qui a 5-10 anni ci sarà un nuovo leader mondiale dell’auto e che Fiat-Chrysler si sarà fusa con qualche altro gruppo, solo che il suo interlocutore potrebbe essere Volkswagen, Bmw o Daimler più che Toyota, Mazda o Suzuki). E poi? E poi dovremmo tornare a ragionare di ristrutturazioni, di competitività, di qualità dei prodotti e dei servizi, di innovazione tecnologica, magari persino di unione europea anche politica e non solo economica. Alla fin fine potrebbe anche essere una scossa salutare e utile a far uscire l’economia italiana (ed una generazione di suoi cittadini al momento priva di speranze per il futuro) ed europea dalla palude in cui si è impantanata. Serve però qualcuno che dia a Mario Draghi quella forza che finora non ha dimostrato di avere, al di là degli auspici e degli annunci, perchè Berlino per ora non sembra aver tutta questa voglia di togliere il disturbo.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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