Quanto è concreta per la periferia europea, divenuta famosa come PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), la speranza di tornare a registrare tassi di crescita “decenti”? Se lo sono chiesti gli analisti del Credit Suisse, analizzando i tassi di crescita dei cicli economici precedenti la crisi esplosa nel 2008 col crack di Lehman Brothers, cui si è poi sommata la crisi del credito sovrano, e cercando di individuare le condizioni necessarie per tornare a vedere in futuro tassi analoghi o migliori. Premesso che per gli esperti accanto a riforme dal lato dell’offerta, peraltro in buona misura già varate, occorre affiancare riforme dal lato della domanda che consentano di ridurre il più possibile il gap tra Pil potenziale e crescita effettiva, cosa che a sua volta rende la crescita della periferia europea estremamente dipendente “dalle politiche intraprese a Francoforte, Bruxelles e Berlino”, è interessante osservare cosa prevedono gli uomini del Credit Suisse per l’Italia.
Il Belpaese, ricordano gli esperti, è passato da una crescita media del Pil dell’1,9% annuo nel periodo 1981-1998, ad un più contenuto +1,5% medio annuo tra il 1999 e il 2007. Ma se si guarda al tasso di crescita del Pil tra il 1990 e il 2012 si scopre che è pari, mediamente, appena allo 0,9% annuo. Al confronto la Spagna è passata dal +2,7% medio degli anni ottanta-novanta al +3,7% medio tra il 1999 e il 2007 (e se si calcola il valore per il ventennio 1990-2012 si scopre un comunque confortante +2,3% medio). Nel frattempo la crescita media dell’area dell’euro è stata nei tre periodi rispettivamente pari, in media, al 2,1%, al 2,3% e all’1,6% annuo, mentre in Germania si è andati dal +2,1% al +1,7% medio annuo (valore che si conferma anche ricalcolandolo sul periodo 1990-2012).
Guardando poi all’“output gap”, ossia alla differenza tra la crescita del Pil registrata effettivamente e la crescita massima teorica che il Pil avrebbe potuto registrare, in assenza di tensioni inflazionistiche, se ci fosse stato un pieno ed efficiente utilizzo di tutti i fattori produttivi a disposizione, si scopre che tale “gap” è per l’Italia stimabile, quest’anno, mediamente attorno al -4,9% (ossia il Pil italiano avrebbe potuto crescere del 4,9% in più), per la Spagna al -6,1%, per Eurolandia mediamente al -3,3% e per la Germania appena al -0,7%. Come dire che mentre in Italia quest’anno “butteremo via” quasi 5 punti percentuali di Pil, ossia, secondo i dati del Fondo monetario internazionale, circa 75 miliardi di euro, che per una nazione come l’Italia dove il peso delle entrate fiscali è ormai pari al 48,3% del Pil significa rinunciare anche a 36 miliardi abbondanti di entrate fiscali, che si sarebbero dunque potute impiegare per eliminare l’Imu sulla prima casa avendo ancora a disposizione una trentina di miliardi di euro o per ridurre il cuneo fiscale o, volendo, per introdurre il “reddito di cittadinanza” di cui tanto si discute in questi giorni.
Non crescere, dunque, costa caro a tutti quanti, dal singolo cittadino all’azienda, dalle banche allo stato. Ma cosa servirebbe per ridurre l’output gap (e in questo modo riassorbendo anche una parte dei disoccupati prima che da ciclici si trasformino irrimediabilmente in “strutturali” e dunque non più riassorbibili a causa dell’obsolescenza delle competenze dei singoli come suggeriscono alcuni studi citati in questi giorni da un analista sempre attento come Alessandro Fugnoli di Kairos Partner? Fugnoli spiega che occorre “aumentare l’offerta (la capacità di produrre) per aumentare la domanda aggregata”, gli uomini di Credit Suisse sostengono che vi sia “evidenza che la competitività esterna della periferia (europea, ndr) abbia già raggiunto una solida base” costi unitari del lavoro tornati a livelli precedenti all’introduzione dell’euro salvo purtroppo che in Italia, unico paese dove “rimangono sostanzialmente oltre i livelli a cui si trovavano prima dell’ingresso nell’euro”.
Questo significa che ci dovremo attendere una ulteriore compressione del costo del lavoro (per tornare ai livelli pre-euro servirebbe mediamente un taglio del costo del lavoro del 10%-12%), cosa che può avvenire o tagliando gli stipendi o riducendo il cuneo fiscale (iniziate a incrociare le dita). Peraltro visto il “significativo surplus di bilancia dei pagamenti in Germania, è verosimile che la spinta al rialzo dell’euro persista” anche in futuro, al di là dello storno di breve causato dal taglio dei tassi ufficiali operato la scorsa settimana dalla Banca centrale europea (o, aggiungo io, salvo che la crescita statunitense non si dimostri così migliore delle attese da indurre la Federal Reserve a irrigidire leggermente la propria politica monetaria, favorendo così un recupero strutturale del dollaro) e questo rischia di ridurre lo spazio per ulteriori crescite delle esportazioni, finora unica valvola di sfogo rimasta alle economie dei PIIGS.
In ogni caso mentre eventuali segnali di crescita in giro per il mondo (ad esempio anche in Cina) non potranno che essere benvenuti, così come ulteriori misure distensive da parte della Bce (che tuttavia è subito stata criticata dalla Bundesbank e dunque procederà verosimilmente con cautela a breve), è necessario pensare a un “nuovo modello di crescita” secondo gli uomini di Credit Suisse. A medio-lungo termine nei PIIGS “è difficile che l’offerta di lavoro possa costituire un freno alla crescita”, dati gli elevati tassi di disoccupazione ed anche se in paesi come l’Irlanda o la Spagna si dovessero fermare o invertire flussi di immigrazione che negli anni passati hanno fatto di molto aumentare l’offerta di lavoro. “Riforme del mercato del lavoro e dei prodotti potranno anzi accrescere la crescita della produttività” e dunque supportare la crescita economica (e qui mi pare che in Italia esista ancora qualche spazio per migliorare, ad esempio, l’ingresso nel mercato del lavoro oltre che l’efficientamento e ridefinizione del peso del pubblico impiego, ad esempio). La “crescita dei capitali desta invece preoccupazioni”: gli investimenti netti rischiano infatti di risultare negativi quest’anno e forse anche il prossimo secondo gli analisti (e per l’Italia questo rischio è pressochè una certezza, putroppo), facendo calare a livelli inferiori a quelli esistenti prima dell’ingresso nell’euro la dotazione di capitali delle economie dei PIIGS.
Questo, assieme agli elevati costi di finanziamento e alla scarsità di offerta alternativa di credito rispetto ai sistemi bancari nazionali potrebbe avere un impatto negativo sulla crescita futura e chi mi legge non dovrebbe sorprendersi, se non altro perchè da tempo suggerisco la necessità di sviluppare al più presto un nuovo modello di credito anche in Italia. “In generale l’offerta non sembra poter essere fonte di grandi preoccupazioni per la periferia europea. Il problema secondo noi è la domanda”, concludono gli analisti. E ci mancherebbe, verrebbe da aggiungere, visto che sulla domanda sta impattando in modo micidiale la “ricetta tedesca” (che per inciso ha portato ad un “output gap” stimato mediamente pari al 12,5% del Pil in Grecia, a riprova che una soluzione sbagliata non è in grado di risolvere alcun problema, rischiando semmai di rinviare l’uscita dalla crisi).
Occorre cambiare passo (e modello) e occorre farlo in fretta, specie in Italia dove, concludono gli analisti, si sono registrati “troppo timidi miglioramenti”. Purtroppo tutto questo si lega alla capacità di elaborare nuove politiche solo in parte dipendenti dalla volontà (e capacità) della Bce o delle altre banche centrali. Servirebbe un’unione politica europea che appianasse le differenze macroscopiche ancora esistenti tra i paesi membri di Eurolandia. Ma per riuscire ad arrivarvi occorrerebbe prima coagulare un sufficiente consenso popolare, cosa che a sua volta richiede una nuova e più capace generazione di politici che pongano l’Europa al centro della propria offerta. Io ancora non ne vedo all’orizzonte, purtroppo, ma altre soluzioni “indolori” o meno che siano non esistono, quindi dobbiamo sperare che dalla necessità del presenta nasca la soluzione del domani.