Come già in Austria, i populisti islamofobici e antieuro del Pvv di Geert Wilders, il “Trump olandese”, fino a qualche settimana fa in testa nei sondaggi, ottengono il 13,1% dei voti e 20 seggi alla Camera Bassa, ma non sfondano in Olanda, dove la vittoria va ai liberali di destra del Vvd del premier uscente Mark Rutte (21,2% dei voti e 33 seggi sui 150 seggi in palio).
I mercati azionari europei tirano un sospiro di sollievo, quelli obbligazionari ci provano in avvio di giornata, ma tornano sui propri passi dopo poche ore e chiudono con prezzi generalmente in calo e rendimenti in rialzo. Questo perché alla fine Wilders non ha perso e il pericolo di una deriva populista non sarà eliminata sinché la politica europea non rialzerà la testa e non troverà soluzioni per una crisi che come già spiegato non è causata dall’euro o dalla “cattiva” Ue, ma certo non gioca a favore di una “casta” che in alcuni casi si dimostra davvero poco lungimirante se non per i propri esclusivi interessi.
Il test vero per i mercati saranno comunque le elezioni presidenziali francesi. Anche qui occorre intendersi: salvo eventi clamorosi Marine Le Pen, la candidata di destra nazionalista e anti euro che almeno nei comizi elettorali promette di cercare di portare la Francia fuori dall’Unione europea (e dalla moneta unica), non sembra avere alcuna chance di arrivare all’Eliseo, essendo data dietro di 20 punti percentuali in un eventuale ballottaggio con l’ex banchiere d’affari ed ex socialista Emmanuel Macron e non avendo guadagnato nulla dagli scandali e dai ritiri che hanno afflitto altri candidati presidenti.
Segno, notano gli analisti di Credit Suisse, che la Le Pen non riesce a fare presa oltre a una certa fetta dell’elettorato, che anzi (come hanno sin qui dimostrato i risultati elettorali in Austria e Olanda) quando si paventa l’ipotesi che a vincere sia un candidato dell’estrema destra xenofoba e populista, con proclami che richiamano quelli del nazionalsocialismo tedesco di 70 anni fa, anche chi solitamente è poco attratto dalla politica va a votare per sventare la minaccia.
Tuttavia ci vorranno più che delle “mancate vittorie” di candidati “unfit” a guidare i rispettivi paesi e tanto meno l’Unione europea per ridare slancio al progetto comune. Nonostante la narrativa contraria, la Brexit (assiema alla presidenza Trump in America) potrebbe rivelarsi l’evento che consentirà un tale rilancio, perché storicamente la Gran Bretagna ha sempre remato contro ogni ipotesi di cessione di sovranità e di comunità a livello continentale, conservando un rapporto privilegiato con gli Usa che la Ue rischiava di insidiare.
Con Donald Trump alla Casa Bianca e Londra fuori dall’Unione europea tale rapporto tornerà a rafforzarsi e starà all’Europa dimostrare di poter ripartire senza più zavorre tra i suoi membri. Se così sarà le prospettive di una ripresa più stabile e più ampia potranno consolidarsi e, forse, potrebbe riaprirsi anche per l’Italia qualche prospettiva meno depressa di quelle attuali. Perché ciò si concretizzi, tuttavia, servirà una forte azione politica ed economica, che passi anche, nel caso italiano, da un alleggerimento del cuneo fiscale sul costo del lavoro e dell’imposizione sul reddito da impresa.
Questo dovrà necessariamente portare a una revisione della spesa pubblica per renderla più efficiente e sostenibile e qui casca l’asino, perché l’attuale (ma si può dire pluridecennale) impostazione di politica economica in Italia si basa su un modello di crescita a debito che, semplicemente, non è più sostenibile e dovrà lasciare il posto ad una ridefinizione del parametro delle attività del “welfare” a partire da previdenza e sanità, ma che passi anche per una minore burocrazia, per sistemi di formazione più funzionali in cui, ad esempio, ai ragazzi si insegnino competenze con le quali poter creare lavoro, non cercare posti, per una giustizia a sua volta più efficiente.
Tutte cose che impongono scelte precise su come reperire le risorse necessarie ma soprattutto su come allocarle. Scelte che richiederanno una rivoluzione culturale da parte della classe dirigente ma pure dell’intero “corpo sociale”. Scelte che richiederanno, in buona sostanza, una presa di coscienza che continuare a fare battaglie di retroguardia per difendere modelli e valori del secolo scorso, per quanto sacrosante, non servono a garantirci un presente né a dare un futuro ai nostri figli.
E quindi tiriamo pure un sospiro di sollievo, assieme ai mercati, perché il populismo delle destre europee non sfonda, ma prepariamoci a rimboccarci le mani perché da qui in avanti l’Europa e l’Italia possano ripartire. L’alternativa è un lento e alquanto poco equo declino, in cui ciascuna lobby cercherà di difendere strenuamente i propri “diritti” (o “rendite” che dir si voglia), sino a quando non ci saranno più diritti per nessuno.