La Cina è sempre più vicina (all’Eurozona): “nel contesto di una rapida crescita degli scambi bilaterali tra la zona euro e la Cina come pure per la necessità di assicurare stabilità ai mercati finanziari”, la Banca centrale europea ha annunciato oggi di aver siglato con la Banca del popolo cinese (Pboc) un accordo bilaterale, di durata triennale, relativo alla creazione di una linea di swap sulle rispettive valute per un importo massimo di 350 miliardi di yuan (forniti dalla Pboc alla Bce) e 45 miliardi di euro (forniti dalla Bce alla Pboc). L’intesa, spiega la Bce, è stata siglata al fine di “assicurare stabilità ai mercati finanziari”; più precisamente, dal punto di vista dell’Eurosistema, “l’accordo di swap intenda fornire una provvista di liquidità permanente e assicurare alle banche europee la continua disponibilità di yuan”.
Non è che l’ultima conferma di come il destino economico e finanziario del vecchio continente sia sempre più legato a quello dei mercati emergenti, a partire dalla Cina, mercato da tempo individuato dalla Germania come futuro sbocco delle proprie esportazioni, tuttora principalmente rivolte all’interno della Ue. Ma che i legami tra Europa e Cina stiano intensificandosi lo si capiva da tempo anche a seguito di continui “interessi” mostrati da Pechino, anche attraverso il fondo sovrano China Investment Corporation (Cic), nei confronti di numerose aziende dell’area del’euro: nel solo 212, come risulta dal bilancio annuale, a fronte di una disponibilità di 100 miliardi di dollari per nuove acquisizioni all’estero, il fondo ha rilevato l’8,68% di Thames Water (investendo 276 milioni di sterline), il 7% di Eutelsat Communications (per 386 milioni di euro) e il 10% di Heathrow Airport Holdings (per 450 milioni di sterline), per un controvalore di circa 1,25 miliardi di euro (dunque meno dell’1,7% delle risorse a disposizione).
Ma la crescita dell’interscambio commerciale tra l’area dell’euro e Pechino non significa solo necessità di maggiori provviste in valuta per le banche delle due aree economiche o investimenti da parte di grandi fondi sovrani: anche le società cinesi stanno guardando alla possibilità di fare “buoni affari” in Europa. Il produttore automobilistico DongFeng Motor Corporation, ad esempio, starebbe cercando di mettere le mani sul 30% di Peugeot, produttore francese da tempo in affanno col quale il gruppo cinese ha da anni un’avviata joint-venture distributiva in Cina, divenendo (per una cifra che dovrebbe essere attorno ad 1,2-1,3 miliardi di euro, in linea con la capitalizzazione del titolo che oggi sale di un 2,5% sul listino di Parigi a 12,53 euro per azione) il principale azionista davanti alla stessa famiglia Peugeot (che finora ha mantenuto il controllo del gruppo col 25,5% del capitale) e all’americana General Motors, un tempo socio al 20% di Fiat Auto, che della società francese ha il 7% e che pare contraria all’ingresso dei concorrenti dagli occhi a mandorla.
In Italia, in particolare, le aziende cinesi (e di altri paesi emergenti) cercano di mettere le mani su alcune eccellenze del “made in Italy” ad esempio nel campo del lusso, della moda, dell’alimentare. Nel loro “shopping” le aziende cinesi sono affiancate da soggetti come la China Development Bank ancora nei mesi scorsi che ha fatto sapere di voler supportare investimenti in particolare nei settori delle infrastrutture e della logistica, dell’energia, delle telecomunicazioni, della finanza, dello shipping e delle piccole e medie imprese, specie quelle ad elevata tecnologia. Tutto bene? Forse, visto che in un momento di crisi non ci si può permettere (e il caso Peugeot ne sarebbe la conferma) di essere troppi schizzinosi.
Meglio sarebbe, tuttavia, se le nostre banche e i nostri politici intensificassero gli forzi per rendere possibile una maggiore apertura del mercato cinese alle aziende italiane e queste ultime riuscissero ad imporsi su tale mercato (cosa che finora è avvenuta molto parzialmente e solo per alcune aziende della moda e del lusso). Anche perché dovrebbe ormai essere chiaro che un confronto con la Cina e i paesi emergenti in genere non può giocarsi solo sul costo del lavoro o sull’accesso al credito (per quanto si tratti di fattori fondamentali), ma deve anche riguardare la qualità dei prodotti e servizi e i diritti dei lavoratori impegnati nella loro creazione. Altrimenti si rischia che dopo aver tollerato un “dumping” strisciante da parte delle aziende cinesi che ha contribuito a spiazzare molti loro concorrenti occidentali, quelli che oggi sono nostri partner commerciali diventino domani i proprietari delle nostre aziende migliori, contribuendo ad una ancora più violenta (e senza regole) selezione “naturale” del mercato, specie in settori maturi.