Borse in calo anche stamane in tutta Europa, Italia compresa, per le tensioni crescenti attorno alla Siria, che gli Stati Uniti sembrerebbero voler punire per l’utilizzo di armi chimiche ma che la Russia continua a difendere dall’ipotesi di un attacco militare. Prevedere un prossimo G20 meno noioso del solito è dunque facile quasi quanto pronosticare che Silvio Berlusconi “silenzierà” per qualche giorno i “falchi” del Pdl dopo il pesante tonfo accusato da Mediaset ieri in borsa (-6,25%) a seguito dell’accresciuto rischio di una crisi di governo.
Ma a pesare sui listini stamane non è solo la Siria, bensì anche i sempre più evidenti squilibri che stanno frenando la corsa di molti mercati emergenti, una frenata che in un’economia globale come quella attuale rischia di ripercuotersi anche sui mercati occidentali (e infatti già ieri si sono visti ordini di beni durevoli negli Usa in luglio in marcato calo dopo una prime frenata in giugno, proprio a causa del rallentamento delle commesse alle aziende Usa provenienti dai mercati esteri). Nonostante tutto, però, essere presenti sui principali mercati emergenti, Cina in testa, resta e resterà a lungo una precondizione per chiunque ambisca a far crescere il proprio giro d’affari e i propri utili, specialmente nel caso di aziende europee.
Così non stupisce che Daimler stia pensando di investire un paio di miliardi di euro per costruire da qui all’anno prossimo un nuovo impianto produttivo in Cina, nel tentativo di tener testa a Bmw e Audi quale produttore di auto di lusso per il mercato cinese. Un mercato ove Daimler prevede di riuscire a vendere 300 mila vetture l’anno entro il 2015 introducendo o aggiornando 20 modelli di vettura, tassello indispensabile nella più ampia strategia di crescita globale del gruppo che dovrebbe vendere oltre 1,4 miliardi di vetture quest’anno e che mira a diventare il primo produttore mondiale di auto di lusso entro il 2020.
Da parte sua il gruppo Fiat sembra non aver ancora trovato la ricetta giusta per vincere la scommessa cinese e preferire affidarsi alla crescita del mercato brasiliano dove da anni può godere di una posizione di leadership. Il che non significa che Sergio Marchionne si sia dimenticato di Pechino: secondo il Detroit Free Press, ad esempio, sarebbe ormai questione di giorni per arrivare all’annuncio di una accordo definitivo per la produzione di Suv a marchio Jeep in Cina attraverso la joint venture con Guangzhou Automobile Group (Gac). Un accordo che Marchionne cerca di raggiungere dallo scorso gennaio quando venne siglata un’intesa preliminare.
Da allora Fiat-Chrysler da un lato e Gac dall’altro non si sono messe d’accordo sul sito industriale da utilizzare, con il gruppo italiano che vorrebbe usare l’impianto di assemblaggio di Gac Fiat (joint venture al 50% tra i due partner) di Changsha, nella Cina centrale, inaugurato nel 2010 ed in grado di produrre fino a 140 mila veicoli l’anno (al momento vi viene prodotta la berlina Fiat Viaggio, che però non sembra aver riscosso grande successo visto che nei primi 7 mesi di quest’anno ne sono state vendute solo 20 mila), mentre i cinesi preferirebbero usare il proprio impianto di Guangzhou, nella Cina del Sud.
La Cina anche per il gruppo Fiat sembra peraltro promettente anche per le auto di alto di gamma, in particolare Maserati e Ferrari, ma i numeri di cui si parla sono purtroppo molto più piccoli che non quelli dei concorrenti tedeschi. Maserati, ad esempio, nel 2011 ha venduto in Cina 780 vetture, nel 2012 945 pari al 15% delle 6.300 vetture col tridente vendute lo scorso anno in tutto il mondo. Se si pensa che ancora nel 2005 la Cina rappresentava meno dell’1% delle vendite del gruppo è evidente che spazi di crescita in Cina esistono e sono importanti, quanto e forse più che in Europa e negli Stati Uniti (dove comunque lo scorso anno sono state vendute il 45% delle vetture prodotte a Modena).
Ma come più volte ricordato, il confronto tra i numeri del gruppo italiano e quelli dei suoi principali concorrenti, in particolare tedeschi (si tratti di Audi, Daimler, Bmw o Porsche poco cambia) restano improbi, malgrado l’integrazione con Chrysler, e questo alla lunga rischia di determinare il destino del gruppo, visto che con volumi che, specie nei segmenti di mercato più elevati, restano una frazione di quelli dei propri concorrenti è improbabile che Marchionne possa varare importanti piani di investimenti che richiedono ammortamenti altrettanto robusti da spalmare su produzioni sufficientemente ampie per mantenere i prezzi di vendita ad un livello allo stesso tempo economicamente sostenibile (ossia in grado di coprire tutti i costi e possibilmente generare un decente rendimento sul medio-lungo periodo) e commercialmente competitivo (tale da ottenere un rapporto qualità/prezzo in grado di catturare nuovi acquirenti).
Insomma: i mercati emergenti e la Cina in particolare restano, nonostante le difficoltà attuali, un passaggio obbligatorio per le grandi (e sempre più anche per le medie) aziende europee. Con qualche maggiore difficoltà, come sempre, per le aziende italiane. Se anzichè perdersi in polemiche sul sesso degli angeli o in vicende personali i politici (e banchieri e imprenditori) italiani lo tenessero maggiormente a mente e provassero a proporre soluzioni per ridurre le difficoltà delle nostre aziende su questi mercati, forse qualcosa in meglio cambierebbe per il Belpaese, non credete?