Non ci sono scappatoie: parlando stamane a Berlino all’assemblea dell’associazione industriale tedesca Mario Draghi, presidente della Bce, ha ribadito che la ripresa economica in Eurolandia “resta fragile” ed è appena nelle sue fasi iniziali, non riuscendo ancora a riassorbire una disoccupazione che “resta su livelli di gran lunga troppo elevati” in molti paesi. Per questo (nonostante le pressioni dei “falchi” della Bundesbank) “il board della Bce prevede che i tassi d’interesse restino ai livelli attuali o più bassi ancora per un esteso periodo di tempo”, il che non significa che potrà essere solo la Bce a farsi carico della ripresa. Per Draghi, infatti, sono necessarie “solide politiche fiscali e macroeconomiche” in tutti i paesi dell’area che consentano di recuperare rapidamente competitività. L’euro, ha aggiunto Draghi, non è stato pensato “con l’idea che alcuni suoi membri siano creditori permanenti ed altri debitori permanenti”.
Draghi parla a Berlino e le ultime due “stoccate” (i tassi sono destinati a rimanere sugli attuali o più bassi livelli a lungo e non si può tollerare un’Eurozona in cui le disparità tra paesi portino alcuni a trasformarsi in creditori permanenti, altri in debitori permanenti) sono sicuramente indirizzate alla Bundesbank e ad Angela Merkel, che ad una settimana dalle elezioni del 22 settembre è pressoché certa di vincere con ampio distacco e poter dunque proseguire nella sua politica sia in casa sia in Europa senza dover fare eccessive concessioni (ma anche senza un ulteriore incremento della già elevata incertezza “politica” europea). Ma a molti è parso che Draghi parlasse soprattutto rivolgendosi all’Italia.
L’ex Governatore della Banca d’Italia ha fatto notare che sono stati fatti “progressi significativi nella stabilizzazione dell’area euro” ma “c’è ancora del lavoro da fare per trasformare questo risultato in maggiore crescita e in maggiore occupazione”, soprattutto da parte dei paesi meno competitivi. I primi della classe, infatti, dal 2008 (anno in cui scoppiò la crisi innescata dal collasso di Lehman Brothers) a oggi “hanno registrato, in media, margini di business più elevati, livelli di indebitamento pubblico più bassi, crescita e occupazione più alta”. Chiudere il gap competitivo è pertanto “un elemento fondamentale per migliorare l’attuale situazione economica”.Per riuscirci sono necessarie riforme che troppe volte sono state rinviate, in Italia e non solo: a breve termine occorrerebbe intervenire sui salari nominali, più a lungo termine occorre puntare su una maggiore produttività.
Se riguardo al primo punto Draghi nota già “alcuni segnali incoraggianti di un riequilibrio nell’area dell’euro in termini di competitività di costo” in parte anche grazie “a riforme strutturali avviate da diversi paesi” che stanno adeguando i costi relativi “laddove erano disallineati in passato” (come in Italia, che rispetto ad altri paesi soffre, come ormai sanno anche le mosche sulla carta moschicida, di un cuneo fiscale molto più elevato e che finora non si è riusciti neppure a scalfire), per il secondo occorre puntare “su innovazione, investimenti e incentivi”, le prime due sfere principalmente attinenti al settore privato, la terza a quello pubblico. Anche qui Draghi sottolinea: ci sarebbero “diverse aree dove i governi, attraverso le riforme, sono in grado di fare la differenza” (peccato che l’attuale governo italiano, come quello che l’hanno preceduto negli ultimi 15 anni almeno, non sembri in grado di fare riforme significative, verrebbe da aggiungere).
Chi in Italia o in altri paesi del Sud Europa teme o spera che tutto si possa risolvere uscendo dall’euro o vedendo “magicamente” tagliato il debito pubblico tramite un default più o meno pilotato inganna se stesso e i suoi seguaci e forse anche per questo Draghi insiste sino alla fine: “la chiave (per uscire dalla crisi, ndr) è perseverare sulla strada delle riforme” prendendo “ispirazione dagli altri che ci stanno riuscendo”. Aiuterebbe, aggiunge il vostro analista, voltare definitivamente pagina dopo un ventennio perso dietro a un anziano signore milanese che spacciandosi per liberista e riformatore ha semplicemente tutelato le proprie rendite di posizione e iniziare dall’abc, riformando (seriamente e per il “bene comune”, concetto su cui l’Italia è ormai superata anche da paesi come la Spagna, non solo come la Francia, come sa chiunque si trovi come il sottoscritto a visitare qualche paese europeo nel corso dell’anno) il sistema educativo, quello giudiziario, quello creditizio e quello fiscale. E varando finalmente politiche degne di questo nome almeno in tre ambiti: quello della politica energetica, quello del sostegno all’innovazione e quello dell’apertura alla concorrenza. Ma tutto questo richiederebbe a monte una rivoluzione culturale, come provo a ricordarvi da quasi due anni sulle pagine di questo sito. Speriamo bene.