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Draghi lascia la Bce: ecco la vera eredità di Super Mario (fallimenti compresi)

Per molti Mario Draghi lascia la Bce come l’uomo che ha salvato l’euro dalla Grande Recessione. Per altri, però, soprattutto per i Paesi del Nord Europa, il governatore uscente della Bce si è spinto oltre il suo ruolo. Oggi Super Mario conclude il suo mandato di 8 anni a Francoforte, un’era in cui i tassi negativi e le politiche monetarie espansive sono stati protagonisti. Ma vediamone le cause, i meriti, le problematiche e soprattutto, l’eredità che Super Mario lascia a Christine Lagarde (e a tutti noi).
A cura di Annalisa Girardi
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È arrivato l'ultimo giorno della presidenza di Mario Draghi alla Banca centrale europea. Si conclude un'era durata 8 anni che ha visto la crisi della moneta unica e del debito sovrano europeo. Quasi una decade di misure espansive e tassi negativi nel tentativo di salvare l'euro e in ultima istanza l'Unione europea. Draghi è arrivato alla Bce nel 2011, succedendo al francese Jean-Claude Trichet, e ha trovato un'Europa che non si è ancora ripresa dalla Grande Recessione, a differenza dell'alleato oltre oceano. Con la Grecia sull'orlo del tracollo, Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia che sembravano seguirla, Draghi ha dovuto mettere in campo una serie di misure non convenzionali che fossero in grado di portare la comunità europea al di là di una crisi senza precedenti che minacciava il progetto di moneta unica e quello stesso dell'Unione.

Un mandato che non si prospettava semplice e che Draghi ha deciso di inaugurare con il famoso "whatever it takes", il discorso con cui avvisava che la Bce avrebbe fatto tutto il possibile per salvare l'euro dalle speculazioni sui debiti pubblici e grazie al quale i mercati gli hanno attribuito autorevolezza e il titolo di Super Mario. In altri termini, con la sua famosa frase pronunciata durante un intervento il 26 luglio 2012 a Londra, Draghi si è dimostrato pronto ad intervenire direttamente in favore degli Stati più in difficoltà, acquistandone titoli fino a tre anni. Sono bastate quelle tre parole perché non servisse mettere in atto il piano anti speculazione Omt (Outright monetary transactions), cioè l'acquisto di titoli di Stato già emessi e scambiati sul mercato. Tre parole, quindi, che hanno salvato l'euro.

Quali sono allora le misure non convenzionali che ha messo in atto Mario Draghi in questi otto anni? E, nonostante abbiano salvato la moneta unica, si può dire lo stesso per l'economia dell'Eurozona?

L'era Draghi: tassi negativi e quantitative easing

Quando Draghi è arrivato alla Bce era evidente che, per far fronte alla situazione in cui versavano le economie europee, bisognasse rivedere l'impostazione dell'istituto centrale, creato sul modello della Bundesbank tedesca con l'obiettivo di mantenere la stabilità dei prezzi per favorire crescita e occupazione. La prima politica monetaria espansiva che ha adottato Draghi, una novità assoluta in moltissimi anni di storia economica, è stata quella di mantenere i tassi negativi per tutta la durata del suo mandato. È stato l'unico titolare della Bce ad averlo fatto.

La misura si spiega attraverso il tentativo di stimolare l'economia reale. Funziona in questo modo: applicando dei tassi negativi sui depositi delle banche commerciali (che sarebbero quelle a cui tutti noi ci rivolgiamo per aprire un conto o chiedere un prestito) alla banca centrale, le prime sono costrette a pagare per depositare liquidità. In questo modo, le banche sono spinte ad utilizzare il denaro in modo più efficiente, evitando di lasciare capitale nelle casse della Bce, ma immettendolo piuttosto nell'economia reale. In altri termini, è come un avvertimento attraverso il quale la Banca di Francoforte sprona le banche commerciali a erogare credito, finanziando famiglie e imprese che in questo modo rimetteranno denaro nei mercati. Come già detto, si tratta di una manovra straordinaria di politica monetaria che viene adottata in casi di stagnazione economica.

L'altro grande pilastro della politica monetaria di Draghi è stato il Quantitative easing (QE), in italiano "allentamento quantitativo". Ancora una volta, siamo di fronte a una misura non convenzionale ed espansiva con cui la Bce è intervenuta direttamente per aumentare la moneta in circolazione. Il QE, lanciato da Draghi nel 2015 è stato un programma che ha immesso nel sistema di credito ben 2.600 miliardi di euro creati dal nulla, per contrastare le tendenze deflazionistiche e produrre inflazione. Se si pensa alla Repubblica di Weimar negli anni Venti, l'inflazione, che non è altro che l'aumento dei prezzi e la conseguente diminuzione del potere d'acquisto, potrebbe non sembrare un obiettivo auspicabile, ma in realtà la Bce considera un moderato livello di inflazione positivo. Più precisamente, la Banca di Francoforte ha stabilito che l'Eurozona dovrebbe mantenere un tasso di inflazione che si avvicini, senza superarlo, al 2% per considerarsi in buona salute. Questo perchè mantiene i prezzi stabili e l'andamento del mercato risulta prevedibile. Un'inflazione troppo bassa potrebbe portare a un calo eccessivo dei prezzi, creando un deterrente alla spesa: in poche parole, perchè acquistare una casa o un'auto oggi, quando domani probabilmente costerà meno? Si tratta di un meccanismo che paralizza la crescita economica: motivo per cui la Bce ha cercato con il piano del QE di spingere l'inflazione verso il 2%.

I problemi delle politiche di Draghi: le voci critiche

Tuttavia, il tasso di inflazione a luglio era all'1% e a settembre è ulteriormente sceso allo 0,8%. Significa che la politica di QE non funziona? L'emissione di liquidità, se in un primo momento può aver scongiurato il collasso immediato delle economie più deboli dell'Eurozona, non è riuscita a centrare l'obiettivo strategico dell'inflazione al 2% e ha creato il rischio di innescare la trappola del QE infinito. In altri termini, il sistema finanziario europeo si espone ad un circolo vizioso per cui ha costantemente bisogno di maggiori stimoli monetari. L'annuncio, dello scorso mese, dello stesso Draghi che allo scadere del suo mandato ha proposto una nuova azione da 20 miliardi al mese di durata indefinita per evitare la recessione, conferma un quadro allarmante per la salute economica dell'Eurozona: l'area euro ha bisogno di continue spinte per mantenere stabili i prezzi e di conseguenza tutta la struttura dei mercati. Una fotografia che dimostra non solo la debolezza economica dell'Ue, ma anche delle sue politiche monetarie, in primis dell'allentamento quantitativo.

Un altro fine del QE era quello di ridurre il costo del debito nazionale degli Stati membri. Se da un lato è vero che si è riusciti a ridurre il costo del debito pubblico nazionale, dall'altro il debito stesso ha continuato a crescere. Se si guarda nello specifico al contesto italiano, con la diminuzione del costo del debito pubblico il nostro Paese risparmia ogni anno svariati miliardi di euro, ma rimane comunque imprigionato in una condizione di instabilità finanziaria dovuta a un debito ormai strutturale. Questo perchè, secondo i dati del Monthly Outlook di Abi, con il QE il credito che le banche hanno concesso alle imprese e alle famiglie non è aumentato, ma diminuito, passando dal 1.420 miliardi del marzo 2015 ai 1.329 miliardi di dicembre 2018. In altre parole, la liquidità emessa dalla Bce non sarebbe mai arrivata all'economia reale. Bisogna precisare che in alcuni casi, come potrebbe essere questo, si devono anche considerare le responsabilità e le decisioni in materia di politica finanziaria operate dai governi nazionali: l'intervento della Bce è infatti comunque regolato da una serie di limiti oltre i quali l'istituto non ha possibilità di agire. Uno dei maggiori critici della politica espansiva del QE di Draghi è stato l'attuale presidente della Deutsche Bundesbank, Jens Weidmann, che in passato aveva espresso il "timore che la politica monetaria sarebbe potuta finire nel vortice della politica fiscale", spronando gli Stati a spendere a dismisura avendo una garanzia di liquidità proveniente da Francoforte.

Specialmente se l'azione espansiva è prolungata, un altro fattore di rischio riguarda i tassi di interesse negativi. Questi infatti, a lungo termine potrebbero gravare sulla reddittività delle banche e danneggiare i meccanismi di accesso al credito. Gli economisti Aditya Bhave e Ralph Axel della banca America Merrill Lynch, ad esempio, sostengono che "la maggior parte delle banche centrali nell’ultimo decennio hanno mancato l’obiettivo di inflazione e i mercati vedono un rischio molto limitato di un rialzo dei tassi in risposta a un’esplosione dell’inflazione, anche perché un atteggiamento espansivo corale e prolungato delle banche centrali le trasforma in attori non economici, che non rispondono più alle variazioni dei prezzi". Seguendo questa linea di pensiero, i tassi negativi quindi, invece di stimolare l'economia reale (in termini di investimenti e consumi), finirebbero per diventare un mero costo economico.

L'eredità di Mario Draghi

Per molti Mario Draghi lascia la Bce come l'uomo che ha salvato l'euro dalla crisi economica e finanziaria. Per altri però, soprattutto per i Paesi del Nord Europa, il governatore uscente della Bce si è spinto oltre il suo ruolo. Ad esempio, secondo il quotidiano olandese Nrc Handelsblad "la politica della Bce è andata molto vicina al finanziamento dei disavanzi pubblici", specialmente "a causa della sua durata indefinita, sia pure frutto di condizioni economiche eccezionali". Inoltre, l'azione di Francoforte sarebbe "penetrata nel campo della politica, permettendo al veleno degli interessi nazionali dei Paesi dell'Euro di entrare nell'istituto".

Draghi ha spesso risposto alle critiche commentando che le politiche espansive straordinarie della Bce non sarebbero necessarie se i governi degli Stati membri dell'Eurozona mettessero in pratica adeguate politiche fiscali: in particolare, bilanci in cui i Paesi meno indebitati come la Germania si impegnano a spendere di più per stimolare l'economia, mentre quelli più economicamente fragili dovrebbero essere più prudenti e contenitivi in materia di deficit. Un punto ripreso anche dalla presidente eletta della Bce, l'ex direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi) Christine Lagarde, che da domani succederà a Draghi: secondo Lagarde i Paesi con un bilancio positivo, come la Germania, non avrebbero compiuto "tutti gli sforzi necessari" per consolidare la crescita economica.

Il rallentamento economico a cui va nuovamente incontro l'Eurozona, non sarebbe imputabile quindi a politiche monetarie sbagliate da parte della Bce: in altre parole, per molti l'inadeguatezza delle politiche fiscali nazionali sarebbero alla pari responsabili della stagnazione. Per quanto sia certamente corretto non addossare totalmente a Draghi e alla Banca centrale il (discutibile) insuccesso delle politiche monetarie adottate dall'Unione monetaria, non si possono allo stesso modo negare delle responsabilità nella gestione della crisi. In particolare per quanto riguarda soluzioni lungimiranti: se è vero che un'emergenza richiede una risposta immediata, un'efficace politica monetaria deve anche saper tenere in conto il lungo periodo. E per quanto si possano criticare le politiche fiscali degli Stati membri, sarebbe stato giudizioso un cambio di direzione davanti a misure che, in tutti i loro meriti, non riescono ancora a scongiurare l'immobilità economica del Vecchio Continente.

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