Se un giorno la crisi greca si potrà dire superata un “grazie” sarà probabilmente dovuto alla Bce guidata da Mario Draghi, sempre più impegnata in un ruolo “supplente” rispetto ad una politica europea dominata dal duo tedesco Wolfgang Schaeuble-Angele Merkel che non sembra avere gli strumenti culturali né la volontà politica di andare oltre ad una visione meramente ragionieristica della crisi che misure di austerity come quelle pervicacemente imposte dalla Germania ai “reprobi” paesi del Sud Europa hanno finito con l’accentuare, non certo col far superare prima o meglio.
Così l’indiscrezione che la Bce avrebbe aumentato oggi di 900 milioni di euro il tetto del programma Ela (che fornisce liquidità d’emergenza alle banche elleniche) al termine di una conference call, mentre ancora si attende l’esito del secondo voto del parlamento greco, che deve varare ulteriori misure di austerità richieste dai creditori internazionali, non può che essere giudicata positivamente se si ha a cuore il destino sia della Grecia sia dell’eurozona. La scorsa settimana Draghi aveva convinto i colleghi a erogare una prima tranche di 900 milioni di euro alzando a 89,5 miliardi il tetto dell’Ela, che dunque dovrebbe ormai aver ampiamente superato i 90 miliardi, dei circa 130 che dovrebbero restare nelle casse delle banche greche.
Una mossa che secondo alcuni era stata decisa “a sorpresa” dallo stesso ex governatore di Banca d’Italia provocando qualche mal di pancia all’interno del board della Bce, ma che ha di fatto consentito già lunedì la riapertura delle banche greche dopo 3 settimane di chiusura forzata, pur con la persistenza di controlli sui prelievi e movimenti dei capitali, solo marginalmente allentati (ora un correntista greco può prelevare 60 euro al giorno, ma può cumulare eventuali mancati prelievi dei giorni precedenti, cosa inizialmente non prevista). Dato che un’economia moderna senza liquidità di fatto smette di funzionare, riaprire le banche greche era sicuramente una pre-condizione che Draghi stesso si augurava potesse essere quanto prima ristabilita.
Questo anche a costo di dimostrare una fiducia nel governo di Alexis Tsipras (che intanto ha visto l’agenzia Moody’s riportare da “CCC-“ a “CCC+” il rating sovrano della Grecia) superiore a quella accordatagli dopo 5 mesi di dure e spesso inconcludenti trattative dai governi dei partner comunitari, ma anche dall’economista e premio Nobel Paul Krugman, che qualche giorno fa ha ammesso di aver sopravvalutato le capacità dei rappresentanti politici greci, di fatto privi di un “piano B” che non fosse quello (rivelatosi totalmente effimero) di provare a “battere cassa” a Cina, subito defilatasi, e Russia, che nonostante molti sorrisi e strette di mano non ha mai aperto i cordoni della borsa, anche perché è a sua volta impegnata ad affrontare la più dura recessione degli ultimi decenni (diretta conseguenza del crollo delle quotazioni petrolifere, stasera nuovamente sotto i 50 dollari al barile, e delle sanzioni internazionali scattate a seguito della crisi ucraina).
La fiducia, sia pure condizionata, nel governo greco dovrebbero in verità dimostrarla maggiormente i creditori, a partire dalla Germania. Insistere come fatto sinora su riforme “strutturali” sul lato della domanda e finanche chiedere, come ora, che vengano abolite forme di sussidio indiretto come le pensioni baby, l’Iva ridotta per le isole e le esenzioni fiscali per gli agricoltori, molte delle quali percepite in modo del tutto illegittimo in una economia dove il peso del “nero” supera quello, già non trascurabile, che esso ha su un’economia come quella italiana e dove la burocrazia appare inefficiente e poco propensa a lasciarsi riformare (anche in questo caso come e più di quanto non sia mai accaduto nell’ex “bel paese”), è semplicemente inutile, nel migliore dei casi, dannoso nel più probabile, vessatorio nel peggiore.
Dice da tempo, con una espressione che tutti gli europei dovrebbero mandare a memoria, Mario Seminerio che “non si può riformare sotto le bombe” e che persino in un paese, la Grecia, dove il prelievo fiscale reale è tra i più bassi d’Europa, cercare di far pagare tasse e contributi “congrui” dall’oggi al domani, magari recuperando retroattivamente anche parte dei “mancati” versamenti precedenti è idea che oscilla tra la follia e la futilità. Erano/sono misure “da prendere nei tempi di vacche grasse, ma in democrazia nessun governo (o quasi) si sogna di fare una cosa del genere” nota Seminerio. Così Alexis Tsipras rischia di doversi costruire con le proprie mani la forca su cui impiccarsi, eppure al momento non sembra esservi altra strada, dato il punto a cui siamo arrivati.
A meno che la “strana coppia” Schaeuble-Merkel non scoppi. In effetti l’ipotesi non è priva di una sua consistenza, visto che il roccioso ministro delle Finanze è giunto ad ipotizzare una “uscita a tempo” di Atene dall’euro che la Merkel non ha mai nominato. Visto che dopo il varo del secondo (duro) pacchetto di riforme Tsipras otterrà di fatto il lasciapassare per riprendere le trattative, questa volta sui tempi e sui modi del terzo possibile “bailout” (piano di aiuti internazionale), che dovrebbe stavolta passare unicamente attraverso il fondo salva stati europeo Esm, senza coinvolgere direttamente Fmi e Bce, la possibilità di assistere ad una divergenza crescente tra Schaeuble e Merkel viene ipotizzata anche da agenzie come Bloomberg, non propriamente tenere col governo greco negli ultimi anni.
Potrebbe essere la testa di Schaeuble la contropartita politica all’accettazione delle misure “lacrime e sangue” da parte di Tsipras e soprattutto basterebbe questo a dare ad Atene e all’eurozona una migliore prospettiva per il futuro? Non è il caso di contarci troppo, eppure in politica prima o poi viene il momento di cambiare ricette e protagonisti, anche se sono tedeschi. Chissà.