7356 lavoratori: tenete a mente questa cifra, perché è il numero di lavoratori che da domani, con la morte di Alitalia e la nascita della nuova (mini) compagnia di bandiera ITA, rimarranno senza lavoro, con due anni di cassa integrazione a disposizione per trovare un’altra occupazione o per andare in pensione un po’ prima. Permettete, tuttavia, di non strapparci le vesta per la morte di uno dei più grandi disastri del capitalismo di Stato italiano, ma nemmeno di gioire per la sua fine ingloriosa. Al netto di tutte le retoriche che sentirete nei prossimi giorni, solo una cosa merita di essere tenuta a mente, sia che la si guardi da destra o da sinistra. Che si è tenuto in vita per trent’anni un carrozzone senza ragion d’essere per salvaguardarne i lavoratori, salvo poi mandarne a casa tre su quattro (da destra). Oppure (da sinistra), che sono stati cancellati 7356 posti di lavoro nonostante siano stati buttati via 13 miliardi di euro dal 1974 a oggi, sei dei quali negli ultimi sette anni.
13 miliardi di euro, già: tenete a mente pure questa, di cifra. Perché è il costo del carrozzone Alitalia che è gravato sulle spalle del bilancio pubblico e delle tasse e del debito pubblico che lo sostengono. Un salasso che non è servito a nulla per ridare competitività alla nostra compagnia di bandiera, che ha perso 8 milioni di passeggeri in un decennio, l’ultimo, in cui il traffico aereo è più che raddoppiato, e che ha chiuso in passivo quindici degli ultimi diciotto esercizi. Un salasso che ha riempito le tasche dei manager che si sono susseguiti al vertice – vale la pena di ricordarli, almeno gli ultimi: Roberto Colaninno, Rocco Sabelli, Andrea Ragnetti, Gabriele Del Torchio, Silvano Cassano, Kramer Ball, Luigi Gubitosi -, nessuno dei quali con esperienze pregresse nel settore del trasporto aereo, ciascuno dei quali con uno stipendio e una buonuscita da nababbo. Un salasso che ha fatto la fortuna dei fornitori, che sono riusciti a vendere ad Alitalia il carburante con un rincaro del 20% rispetto ai prezzi medi, o ad applicare un rateo sul leasing del 15% più alto, o ancora a far pagare le manutenzioni quasi il doppio rispetto ai prezzi di mercato, mentre fa pagare un rincaro di 5 euro a biglietto a ciascun passeggero per mandare in pensione i piloti sette anni prima del dovuto, senza l’ombra di una penalizzazione.
E dire che potevamo venderla, Alitalia, quando c’era qualcuno che ancora ce l’avrebbe comprata. Chiedere ad AirFrance, per informazioni. E chiedere soprattutto a Silvio Berlusconi, che impostò tutta la campagna elettorale del 2008 sul salvataggio dell’italianità della compagnia di bandiera, come se senza Alitalia la nostra economia sarebbe andata a rotoli. Risultato? Berlusconi ha stravinto le elezioni, i francesi se ne sono scappati a gambe levate, i passeggeri hanno continuato a preferire le low cost e l’economia italiana ha continuato il suo inesorabile declino, con il fardello di una compagnia aerea comatosa sulle spalle, da tenere in vita in qualche modo per non perdere voti.
Se non altro, direte voi, oggi è finita. Insomma. Perché comunque i costi di questo disastro li paghiamo ancora noi tutti. Per le casse integrazione e le gli ammortizzatori social di chi resta a casa, com’è doveroso. Ma anche perché la nuova compagnia di bandiera, la piccola ITA, è ancora sulle spalle dello Stato, coi suoi 52 aerei e i suoi quasi duemila dipendenti. Soprattutto, con prospettive di crescita che sembrano lunari, considerando quanto saranno aggressivi i competitor dopo due anni di blocco causa pandemia, e quanto poco ancora le persone stiano viaggiando. Il tutto, ricordiamolo ancora, in un Paese che vorrebbe vivere di turismo, e che non è nemmeno capace di far sopravvivere una compagnia aerea.