Allegria: mentre Mario Draghi, numero uno della Bce, finisce col deludere le attese, probabilmente eccessive, dei mercati rinviando ogni decisione in merito al lancio di un eventuale “quantitative easing” (acquisto da parte della Bce di bond e altri asset, oro escluso, direttamente sul mercato, allo scopo di aumentare la massa monetaria in circolazione e favorire la risalita dei prezzi e dell’attività economica) al prossimo trimestre, pur ribadendo che il board dell’istituto è unanime nel suo sostegno ad una politica monetaria che mira a far risalire i prezzi verso una soglia appena inferiore al 2% annuo (mentre le ultime stime della stessa Bce, riviste oggi al ribasso, parlano di prezzi in crescita dello 0,5% quest anno, dello 0,7% l’anno prossimo e dell’1,3% nel 2016, a fronte di un Pil che in Eurlandia crescerà solo l’1% e non l’1,5% l’anno venturo e solo l’1,5% e non l’1,9% nel 2016), dall’altra parte dell’oceano Atlantico un altro banchiere intonava il de profundis per il vecchio continente.
Secondo Jamie Dimon, amministratore delegato del colosso americano Jp Morgan Chase, occorreranno “decenni” perché le riforme necessarie a rilanciare la crescita europea vengano varate dai governi di Eurolandia, mentre la Cina non dovrebbe aver eccessiva difficoltà a centrare i propri obiettivi di crescita a breve termine. La crescita europea sarebbe dunque destinata a rimanere “ad un livello sub ottimale”, in quanto tutti i paesi dell’area “soffrono dei medesimi problemi strutturali, ma trattandosi di 17 paesi alcune delle riforme strutturali necessarie vanno approvate prima in 17 parlamenti e poi da Bruxelles”. Il discorso di Dimon non fa una grinza e conferma la scarsa fiducia che le autorità americani, pubbliche o private che siano, nutrono in merito alla capacità del vecchio continente di venire a capo della matassa di problemi nei quali si è avvolto col passare degli anni.
Già il mese scorso, si ricorderà, il Segretario al Tesoro americano, Jacob Lew, aveva spronato l’Europa a fare di più per evitare il rischio di un “decennio perduto” simile a quello già vissuto dal Giappone, paese che per troppi versi assomiglia, come già ricordato, all’Italia dal punto di vista demografico, politico e corporativistico. Tutto l’opposto della Cina, insomma, le cui autorità sono “very smart”, molto abili, secondo Dimon in quanto si stanno dimostrando, finora, capaci sia di gestire lo scenario macroeconomico sia di centrare gli obiettivi a breve termine di crescita economica “il che è una buona cosa per tutti quanti”, anche se, ha ammesso il banchiere americano, Pechino soffre ancora di troppa corruzione, di una mancanza di trasparenza e deve “ampliare la propria democrazia”.
Tralasciando gli aspetti politici è difficile dar torto a Dimon: per intenderci, la Cina quest’anno dovrebbe vedere il Pil crescere meno del 7,5% ufficialmente indicato come obiettivo, ma non di molto tanto che il premier Li Keqiang ha già fatto notare che anche con una crescita “di circa il 7%” Pechino resterebbe un “top performer” in materia e non gli si può dare torto. Con una popolazione di oltre 1,3 miliardi di persone, la Cina è del resto uno dei mercati a cui guardano con maggiore interesse anche le aziende italiane, che nei primi otto mesi dell’anno hanno visto salire le esportazioni del 5,9% a oltre 6,88 miliardi di euro (dai 6,5 miliardi circa dei primi dieci mesi del 2013, secondo i dati Sace), più di quanto non siano cresciute le importazioni, che restano peraltro ampiamente superiori con 16,3 miliardi di euro di controvalore nel periodo, in crescita del 4,3% rispetto ai 15,6 miliardi abbondanti di un anno prima.
Allora forse, mentre il governo sarà impegnato, come preannunciato ieri in Parlamento dal premier Matteo Renzi, a lavorare per fare che il 2015 risulti l’anno delle liberalizzazioni in Italia, cosa che chi scrive può solo che augurarsi si estenda dalle assicurazioni, in particolare per quanto riguarda l’annunciata riforma dell’Rc Auto, alle “libere” professioni, da troppo tempo piccole riserve di caccia di pochi grandi professionisti, sarebbe bene più che andare a “battere i pugni sul tavolo della signora Merkel” come suggerisce qualcuno, che il governo italiano trovi finalmente il modo per sostenere la crescita delle aziende italiane in Cina. Anche perché guardando attentamente ai dati settoriali appare evidente che ci sono tuttora alcune opportunità interessanti per le aziende tricolori, ad esempio nel campo dei macchinari e delle apparecchiature nca (ossia che intervengono meccanicamente o termicamente sui materiali o sui processi di lavorazione), degli autoveicoli e rimorchi o delle bevande.
Settori, si noti, nei quali l’Italia vanta un saldo commerciale ancora consistente nei confronti della Cina. Si vuole tornare a crescere? Si facciano riforme in casa, come ci ha invitato a fare ancora di recente persino l'Ocse, ma si tutelino per quanto possibile anche le nostre eccellenze in grado di conquistarsi un “posto al sole” all’estero. Anche perché limitarsi ad aspettare che la Bce, la Ue o altri ci tirino fuori dalla crisi sarebbe vano, prima che pericoloso e a pagarne le conseguenze indovinate chi sarebbero? Indovinato.