Nuova frenata delle aspettative di inflazione: secondo quanto annunciato oggi dalla Banca d’Italia commentando i risultati dell’indagine trimestrale svolta in collaborazione col Sole 24 Ore, a fine 2013 le attese a sei mesi sull’inflazione al consumo sono state riviste nettamente al ribasso rispetto alla rilevazione di fine settembre (allo 0,9% dall’1,5%), in linea con la decelerazione dei prezzi registrata nell’ultimo scorcio dell’anno appena concluso (tra agosto e novembre l’inflazione su base annua è calata dall’1,2% allo 0,7%). Banca d’Italia aggiunge che pure le aspettative a uno e due anni si sono ridotte rispetto alla precedente rilevazione, rispettivamente all’1,1% e all’1,2% (dall’1,6% e 1,7%). In particolare le imprese segnalano che i propri prezzi di vendita sono aumentati dello 0,4% su base annua, mentre nei prossimi 12 mesi i listini continuerebbero a crescere in misura contenuta (0,9% in media).
La notizia positiva è che le pressioni provenienti dal costo del lavoro si sono leggermente attenuate rispetto all’inchiesta precedente, quella cattiva è che la debolezza della domanda avrebbe lievemente accentuato la spinta alla moderazione dei prezzi, tanto che tra le imprese i cui prodotti o servizi sono soggetti al regime di aliquota Iva ordinaria (oltre l’80% del campione), il 61,5% ha dichiarato di non aver traslato sui propri prezzi di vendita l’aumento dell’aliquota dal 21% al 22% entrato in vigore il primo ottobre del 2013, smentendo i profeti di sventura, politici e non, che temevano un’impennata dei prezzi dopo tale provvedimento. I fattori principali che hanno influenzato tale scelta sarebbero stati le condizioni della domanda (che resta debolissima) e le politiche di prezzo dei propri concorrenti: slo il 23% delle imprese ha dichiarato di aver interamente traslato l’aumento dell’aliquota Iva sui propri prezzi di vendita, mentre la parte restante l’avrebbe fatto solo parzialmente.
Il che conferma che prima di fare congetture di sorta circa la risposta di un sistema economico a una qualsiasi variazione dei parametri (in particolare la pressione fiscale nelle sue varie componenti) in base al quale tale sistema funziona, occorrerebbe valutare l’elasticità della domanda al prezzo e dunque l’impatto che una variazione, in più o in meno, dei livelli di tasse dirette e indirette è in grado di produrre. L’indagine di Bankitalia ha riguardato anche la valutazione delle imprese circa la situazione economica generale del paese: prevale, sia da parte delle imprese industriali sia dei servizi, un giudizio di stabilità (rispettivamente il 64,2% e il 60,8%), mentre il saldo negativo tra giudizi di miglioramento e peggioramento è tornato a crescere (a -27,9 da -17,4 punti percentuali), restando tuttavia tra i valori più contenuti dagli ultimi sei trimestri (come dire che il quadro appare stabile con qualche nube all’orizzonte). Resta stabile al 12,5% la percentuale di imprese che prevede un miglioramento dello scenario economico nei prossimi sei mesi.
Stabile, su livelli negativi, è anche il saldo dei giudizi tra chi prevede un aumento e chi una diminuzione della domanda (-9,2%), ma se non altro torna in positivo per la prima volta dal settembre 2012 il saldo per quanto riguarda l’andamento della domanda per le imprese esportatrici, a conferma che per il momento è solo dall’export che si può sperare giunga un pur flebile impulso per riavviare i motori dell’economia italiana, che pure secondo l’Istat in qualche modo sta rimettendosi in moto se è vero che a novembre la produzione industriale è aumentata su base destagionalizzata dello 0,3% rispetto al mese precedente e dell’1,4% rispetto al novembre 2012. Un aumento che comunque non riguarda ancora i beni di consumo (-1,1% su base mensile, ovvero -0,2% su base annua).
Interessante è notare come le difficoltà di accesso al credito, che molto hanno giocato (in senso negativo) sull’evolversi dello scenario economico italiano sin dal 2008, appaiono “in moderata attenuazione rispetto al terzo trimestre” del 2013: il saldo tra la quota di imprese che segnala migliori condizioni di finanziamento e quella che ne indica un peggioramento resta negativo, ma cala a -15,3% da -17,5% dell’inchiesta di settembre, mentre anche le attese sulla posizione di liquidità nei prossimi tre mesi hanno registrato “un lieve progresso rispetto all’inchiesta precedente”: la quota di coloro che ritengono che la posizione sarà insufficiente cala al 19,5% (dal 21,4%), mentre resta pressoché stabile (al 15,9%) quella delle aziende che la giudica più che sufficiente. Incrociando le dita qualcosa si muove, ma non illudetevi: per il momento nulla è destinato a cambiare sul fronte dell’occupazione.
Su questo fronte le attese “nel breve termine permangono orientate al pessimismo” ammette Bankitalia: la quota di imprese che stimano un aumento del numero di addetti nei prossimi tre mesi si è attestata su valori poco al di sotto del 10%, mentre quella delle aziende che ne prefigurano una riduzione si è mantenuta su livelli poco superiori al 23%. Come dire che poco o nulla è destinato a cambiare, ma di quel che potrebbe cambiare è più facile (in proporzione di due volte a una) che si tratti di un peggioramento che di una qualsivoglia miglioria. Del resto una crisi da domanda indotta (dalle autorità europee e italiane) quale “cura” per la pregressa perdita di competitività del sistema economico italiano, in gran parte a causa dell’eccessivo aumento del costo del lavoro (su cui in larga misura ha inciso la dinamica fiscale, ma tant’è visto che nel breve periodo al di là di annunci ad effetto è improbabile giungano da questo fronte novità sostanziali), era e rimane difficile prevedere che possa essere il lavoro la reale “priorità” di autorità e aziende, al di là di dichiarazioni generiche e stante la perdurante assenza di quelle necessarie riforme che costituirebbero la precondizione (minore burocrazia, maggiore apertura alla concorrenza, più equa distribuzione e minor incidenza del carico fiscale, ridefinizione delle prestazioni dello stato sociale) per rilanciare l’economia italiana.