Dal 15 settembre, quando il Dipartimento di Giustizia americano ha “sparato” una richiesta da 14 miliardi di dollari di penali per chiudere l’inchiesta relativa alla vendita di strumenti finanziari collegati ai mutui subprime, ad oggi il titolo Deutsche Bank (-7,37% anche oggi) ha perso poco meno del 20%, portando al 53% la perdita complessiva da inizio anno.
Le richieste americane sono state solo l’ultima tegola caduta in testa alla principale banca tedesca, dopo i timori relativi all’esposizione verso derivati (una trentina di miliardi di euro netti) e la sensazione che la pulizia di bilancio che è già costata qualcosa come 22 miliardi di euro di aumenti di capitale dal 2008 sia lontana dall’essere completata.
L’ultima speranza di evitare ulteriori salassi sembra essere svanita dopo che i portavoce del cancelliere tedesco Angela Merkel hanno ribadito ai giornalisti che non vi è alcun fondamento nelle voci di possibili aiuti di stato alla banca. Voci sulla cui inconsistenza chi scrive non aveva molti dubbi si da quando la vicenda è esplosa ma che forse alimentavano le inconfessate speranze di tanti banchieri di tutto il vecchio continente di scaricare sui contribuenti europei rischi e oneri di una gestione del credito nel migliore dei casi poco fortunata, quando non manifestamente poco interessata alla rischiosità e redditività prospettica delle singole operazioni.
Proprio per recuperare solidità e redditività tanto Deutsche Bank quanto Commerzbank, le due maggiori banche tedesche, per molti destinate a fondersi in un futuro non così distante, sono da tempo impegnate a rivedere il proprio modello organizzativo, riducendo al contempo il personale.
Il passaggio appare obbligato per qualunque banca europea e non che voglia restare competitiva su un mercato che la tecnologia sta rivoluzionando e dove le costose e spesso poco redditizie reti di filiali fisiche stanno cedendo il passo a app per il pagamento tramite cellulare e sistemi di e-banking che evitano agli utenti di doversi recare fisicamente allo sportello per le operazioni più banali.
Quelle operazioni, purtroppo, che nella maggioranza dei casi costituiscono la ragione stessa di esistenza delle banche italiane (e di molte banche europee in genere). Quelle stesse operazioni i cui costi sono spesso stati tenuti più elevati del necessario riducendo la concorrenza con barriere di tipo politico o con accordi di cartello.
Inevitabile dunque prevedere che anche il settore creditizio italiano si stia avvicinando a una nuova tornata di licenziamenti ed esuberi: la cartina di tornasole potrebbe essere la vicenda delle quattro “good bank” nate dalle ceneri delle risolte Banca delle Marche, Banca dell’Etruria e del Lazio, CariFerrara e CariChieti, che sostanzialmente nessuno vuole, salvo aver mani libere in una successiva integrazione e ristrutturazione.
Il termine indicato a suo tempo dalla Ue per cedere le banche (il 30 settembre) si avvicina rapidamente ma a parte un paio di offerte da parte di Ubi Banca (che pare interessato a Banca delle Marche) e di Bper (cui interesserebbe Banca Etruria) non si segnalano altri pretendenti.
Si noti come continuino a brillare per l’assenza i fondi esteri, quegli stessi che pure si sono più volte dichiarati interessati ad acquistare, ovviamente a sconto, gli Npl che gravano sui bilanci di tutte le maggiori (e minori) banche italiane ma che in teoria non dovrebbero gravare più di tanto sulle quattro “good banks”, il che la dice lunga sulla redditività prospettica degli istituti, allo stato attuale.
Potrebbe quindi capitare che la vendita slitti di qualche giorno o settimana, il tempo per smussare gli ultimi spigoli che sembrano riguardare non solo il prezzo della cessione ma anche gli eventuali vincoli in termini di mantenimento dell’occupazione che gli acquirenti dovranno accettare di assumersi.
Sullo sfondo chi può prova ad andare avanti coi preannunciati programmi di dismissione di asset più o meno a rischio, ma a questo punto vi è un concreto rischio di “intasamento”a fine anno: Banca Carige deve collocare 900 milioni di Npl, Unicredit vuole disfarsi di una ventina di miliardi sempre di Npl, Mps cerca la quadra per riuscire a mettere fuori bilancio 27,7 miliardi di sofferenze ed alzare la copertura sui restanti Npl.
Con la tensione politica destinata a riaccendersi in vista dell’avvicinarsi della consultazione referendaria del prossimo 4 dicembre sulle modifiche alla Costituzione, per le banche italiane si profila un autunno “rovente” e volatile, in borsa e non solo.