Il default argentino sta producendo effetti “di sponda” curiosi quanto imprevisti. Mentre il Senato di Buenos Aires ha dato via libera al disegno di legge promosso dal governo che prevede ai titoli ristrutturati emessi in base a legislazioni internazionali (in particolare alla legge americana) di passare sotto la legislazione domestica. L’idea di fondo è quella di aggirare gli effetti della sentenza dello scorso giugno del giudice Thomas Griesa di New York che dando ragione a un gruppo di fondi hedge guidati dalla Elliot Management aveva bloccato il regolare pagamento degli interessi su tali titoli da parte della banche depositarie statunitensi, ritenendo che potesse essere pregiudizievole dei diritti dei creditori (i fondi hedge in questione, ma non solo) che a distanza ormai di dodici anni dal default dichiarato nel 2002 non avendo mai accettato la proposta di concambio e ristrutturazione del debito argentino (che comportava perdite mediamente attorno al 70% del capitale sottoscritto, in base alle singole emissioni) stanno ancora attendendo di essere rimborsati integralmente del capitale e degli interessi maturati da allora sui titoli non concambiati (i cosidetti “holdout”).
Nel frattempo i fondi definiti “avvoltoi” da Buenos Aires (per questo “bacchettata” dallo stesso Griesa) e da parte della stampa mondiale non sono stati con le mani in mano: il fondo Nml Capital (controllato dalla Elliot Management dell’investitore miliardario Paul Singer) ha ad esempio ottenuto da un’altra corte statunitense, in questo caso del Nevada, i “discovery rights” (letteralmente il diritto a veder rivelati) relativamente ai conti di oltre cento “shell company” (società paravento) che fanno capo a Lazaro Baez, magnate argentino del settore delle costruzioni molto vicino ai Kirchner (Cristina Elisabet Fernandez de Kirchner è l’attuale presidente argentino, oltre ad essere la vedova di Nestor Kichner, già presidente dell’Argentina dal 2003 al 2007, morto a seguito di un attacco cardiaco nell’ottobre del 2010), la cui fortuna è legata ad una storia di sviluppo immobiliare e turistico nella provincia di Santa Cruz in cui Baez ha ottenuto importanti appalti governativi.
Il sospetto dei gestori americani è che i beni di Baez, e forse non solo i suoi, siano frutto di arricchimento illecito ai danni dello stato argentino e che pertanto il suo patrimonio appartenga all’Argentina stessa e sia dunque “aggredibile” per soddisfare il credito che Nml vanta verso Buenos Aires. Gli argentini, che in caso di ulteriore vittoria dei fondi americani potrebbero quanto meno iniziare a sospettare di essere stati sistematicamente depredati, per decenni, dai loro “patriottici” governanti (naturalmente ogni riferimento a vicende di altri stati è “puramente casuale” come si dice in questi casi, quindi non saltate a conclusioni affrettate), stanno a loro modo provando a correre ai ripari e chi può compra azioni come protezione verso la continua svalutazione del peso nei confronti del dollaro e la crescente inflazione, tanto che a fine agosto l’indice Merval della borsa di Buenos Aires risultava in crescita da inizio anno dell’85% (ma solo del 43% se calcolato in dollari americani applicando il tasso di cambio ufficiale e del 27% se si utilizza il tasso di cambio “ufficioso” applicato dagli investitori internazionali pari a 12,96 peso per dollaro alla fine del mese scorso).
Se Buenos Aires dovesse andare fino in fondo potrebbe sbloccarsi il pagamento dei 539 milioni di dollari di interessi sul bond (concambiato) 2033, bloccato in giugno in assenza del contestuale pagamento di 1,5 miliardi di dollari ai fondi Usa, pagamento che l’Argentina non può concedere sia perché rischierebbe di dover pagare in tutto 15 miliardi di dollari per soddisfare l’intera platea di creditori dissenzienti (tra i quali restano circa 50 mila italiani, un decimo del mezzo milione di risparmiatori che vennero coinvolti nel default) sia perché la clausola pari passu o “clausola rufo” (Rights Upon Future Offers) inserita negli accordi di ristrutturazione estenderebbe ogni miglior trattamento che fosse accordato ai creditori dissenzienti anche a tutti coloro che aderirono (nel 2005 e poi nel 2010) al concambio proposto da Buenos Aires.
Nel frattempo gli investitori che hanno venduto Cds (credit default swap, un contratto con cui ci si assicura contro il rischio di fallimento di un emittente) sul debito argentino dovranno pagare 532 milioni di dollari a chi li ha acquistati per chiudere le posizioni su un quantitativo pari a 880 milioni di dollari di valor nominale di derivati a seguito del decretato nuovo “default tecnico” del paese sudamericano. Un prezzo determinato al termine di un’asta gestita da Markit Group e Creditex Group che ha fissato il valore dei titoli di stato argentini coperti dai Cds in questione al 39,5% del loro valore nominale. Un valore inferiore a quello a cui trattavano sul mercato i bond medesimi (sceso attorno al 40,25% del valor nominale nell’imminenza dell’asta dei Cds). Tuttavia proprio in quest’asta si è notato una buona domanda di titoli in default, cosa che fa ritenere che il mercato si attenda ancora una soluzione il meno traumatica possibile della vicenda, soluzione che potrebbe arrivare a breve a seguito dei colloqui che il ministro delle Finanze argentino, Pablo Lopez, sta continuando ad avere con i fondi americani a New York.
I colloqui non sono stati confermati da nessuna delle parti, ma l’agenzia Bloomberg citando “tre fonti a conoscenze dei colloqui” ha indicato la presenza a tale incontro di Richard Perry, amministratore delegato del fondo hedge Perry Corporation (senza ricevere una smentita ufficiale). L’idea che continua a circolare è di far rilevare i titoli in mano ai fondi americani a un pool di grandi banche, che poi accetterebbero la conversione dei titoli in nuovi bond emessi sotto la legge argentina o comunque li cederebbero al Tesoro di Buenos Aires dopo che sarà scaduta la clausola rufo (cosa che accadrà il 31 dicembre prossimo). A quel punto chi ha avuto ha avuto, la comunità finanziaria festeggerà lo scampato pericolo, alle banche verrà certamente riservato un ruolo nei futuri collocamenti di titoli di stato che Buenos Aires deve cercare di tornare a emettere se non vuole veder schiantata la propria economia e tutti o quasi vivranno felici e contenti (tranne i residui detentori di titoli non concambiati). Sempre che qualcosa non vada storto da qui ad allora, cosa non impossibile e forse neppure così improbabile.