L’attesa è finita: il Def è stato approvato ieri dal Consiglio dei ministri e presentato alla stampa dal premier Matteo Renzi, scatenando immediati commenti generalmente in termini laudativi da parte dei media italiani e più critici da parte della stampa mondiale. Premesso che il cammino che ha di fronte l’Italia è alquanto stretto e accidentato e non dipende dalla capacità del premier in carica o dei suoi ministri (cui spetta semmai di percorrerlo al meglio o individuare ove possibile qualche scorciatoia più che sentieri alternativi, a meno di non voler rinegoziare i patti sottoscritti con gli altri paesi membri di Eurolandia o finanche uscire dall’euro, con tutti i rischi e i costi del caso), il quadro che emerge da una lettura del documento e soprattutto delle tabelle previsionali è in chiaroscuro.
Esaminiamo anzitutto la maggiore criticità: la crescita resta modesta, per ammissione dello stesso governo che ha tagliato l’ottimistica previsione di un incremento del Pil dell’1% indicato da Saccomanni e Letta per l’anno in corso ad un più modesto +0,8% (visto accelerare a +1,3% nel 2015 e poi al +1,6%, +1,8% e +1,9% rispettivamente nei tre anni seguenti), previsioni comunque più favorevoli di quelle appena confermate dal Fondo monetario internazionale, che parla di un +0,6% quest’anno e di un +1,1% l’anno prossimo. Come dire che Matteo Renzi e i suoi ministri sono stati sicuramente più realisti ma non per questo hanno perso speranza in un rilancio dell’economia e questo forse è un bene ma espone pure al rischio di future delusioni se qualcosa andasse storto.
Cosa può andare storto? Ad esempio le esportazioni nette: nel 2013 hanno limitato i danni con un contributo positivo dello 0,8% che ha mitigato il crollo della domanda interna (-2,6%) e l’andamento asfittico delle scorte (-0,1%). Quest’anno e in futuro le scorte non avranno praticamente impatto (sono viste in calo di un ulteriore 0,1% quest’anno per poi mantenersi invariate nei quattro anni seguenti), mentre a rimbalzare dovrebbe essere la domanda interna: +0,5% quest’anno, +1,1% l’anno venturo (e poi +1,3%, +1,6% e +1,7% rispettivamente nei tre anni a seguire fino al 2018). L’export invece dovrebbe quasi azzerare il suo contributo netto (ossia la differenza tra esportazioni ed importazioni, peraltro entrambe viste in robusta crescita attorno o sopra un 4% annuo) e da un +0,5% previsto ancora per quest’anno cadere al +0,2% nel 2015 e nel 2016 e poi al +0,1% nel 2017 e nel 2018.
Sembrerebbe (e probabilmente è così) la riprova che la “ricetta tedesca” fatta solo di export non funziona, almeno non per tutti e non con un euro che nonostante gli sforzi della Bce si mantiene solido. Non c’è del resto da stupirsi: l’export dipende infatti dall’andamento della domanda mondiale che non è detto sia sempre crescente, inoltre l’Italia (o la stessa Germania, che a febbraio ha visto le esportazioni calare dell’1,3% mensile contro il -0,5% atteso a causa crisi dei paesi emergenti) può subire (e di fatto subisce) una crescente concorrenza sui prezzi oltre che sulla qualità dei prodotti e servizi esportati da parte di altri produttori (occidentali od emergenti che siano). In questo caso dunque Renzi e i suoi ministri sembrano sottintendere che una soluzione andrà trovata a livello europeo più che solo italiano e questo è apprezzabile.
Apprezzabile è pure prevedere un andamento sostanzialmente piatto della spesa della pubblica amministrazione e delle istituzioni private sociali, vista oscillare tra lo 0 e lo 0,3% nel quinquennio, con un +0,2% quest’anno che segna comunque un’inversione rispetto al -0,8% dello scorso anno dovuto quasi solo all’azzeramento di ogni spesa per investimento (con tutti i guai che da questo sono derivati e rischiano di ulteriormente derivare, si pensi allo stato fatiscente di molti edifici scolastici pubblici). La scommessa vera di Renzi si gioca sulla crescita degli investimenti fissi lordi: calati del 4,7% l’anno passato, dovrebbero risalire del 2% quest’anno, del 3% nel 2015, del 3,6% nel 2016 e poi del 3,8% negli ultimi due anni (anche se in questo caso il dato mi pare da prendere con le pinze).
Ma anche ammesso che tutte queste stime siano correte, e che il peso degli interessi sul debito pubblico passi dai 5,3 punti di Pil dello scorso anno ai 4,7 punti nel 2018, con un indebitamento netto strutturale che cali ancora di 0,6 punti quest’anno e di 0,1 punti l’anno venturo per poi stabilizzarsi, il rapporto debito/Pil quest’anno salirà comunque, si legge nel Def, dal 132,6% del 2013 al 134,9% (dal 129,1% al 131,1% al netto dei sostegni forniti dall’Italia ad altri paesi dell’Eurozona), per poi svicolare al 133,3% nel 2015 (comunque ancora sopra i livelli di fine 2013), al 129,8% nel 2016, al 125,1% l’anno successivo e al 120,5% nel 2018, anno in cui al netto dei sostegni ai paesi dell’Eurozona dovrebbe risultare pari al 116,9%, ancora distante da quel 60% che dovrebbe essere raggiunto entro il 2030.
Peccato che per raggiungere l’obiettivo a quel punto occorrerebbe ridurre di circa 3 punti percentuali l’anno per i 12 anni seguenti il debito: è probabile riuscirci? La domanda non può che restare aperta, di certo fa impressione vedere nero su bianco una previsione di un saldo primario (l’eccedenza delle entrate sulle spese al netto della spesa per interessi) in salita dai 2,2 punti di Pil del 2013 ai 5 punti di Pil entro il 2018. Peraltro proprio quella soglia (il 5% di avanzo primario) era stata utilizzata dalla Commissione Ue per ipotizzare un calo del Debito/Pil italiano al 60% entro il 2030, solo che la Commissione Ue aveva originariamente previsto che tale traguardo fosse raggiunto già nel 2014 (mentre così non sarà) e potesse da quel momento essere costantemente mantenuto, ipotesi su cui già commentatori come Mario Seminerio si sono espressi in termini quanto meno scettici.
Ultimo ma non meno irrilevante punto: i famosi 80 euro in più in busta paga ai lavoratori dipendenti che guadagnano meno di 1.500 euro netti al mese tramite taglio del cuneo fiscale, o per dirla con un’altra formula “mille euro in più l’anno a 10 milioni di italiani” richiedono 10 miliardi di euro di coperture strutturali su base annua. Il governo parla di 6,6 miliardi di sgravi Irpef per quest’anno perché la misura entrerebbe in vigore a maggio e dunque peserebbe per 8 mesi su 12; per rimediarli il governo punta principalmente sui risultati della “spending review” stimati in “circa 4,5 miliardi” quest’anno (e destinati a salire a 17 nel 2015 e a 32 nel 2016, sempre che ci si riesca). Si spera poi che parte di quei 6,6 miliardi finiscano in maggiori consumi e quindi aiutino a registrare un incremento del gettito Iva, così come si spera possa capitare nel caso dei 13 miliardi di euro di rimborsi della P.A. alle imprese “che si aggiungono ai 47 già stanziati dai precedenti governi”.
Il problema è che, appunto, dei 47 miliardi “già stanziati” ben poco è andato in consumi. Nel 2012 la spesa per consumi delle famiglie italiane si è anzi ridotta del 2,8% su base annua, nel 2013 di un ulteriore 2,6% e per quest’anno il Def stima un modesto +0,2%. Solo l'anno prossimo i consumi dovrebbero risalire dello 0,9%, dell’1,2% nel 2016 e poi dell’1,6% e dell’1,7% nei due anni successivi. Alla base della ripresa auspicata restano comunque misure “una tantum” e non strutturali, come nota anche l'economista Carlo Alberto Carnevale Maffè su Twitter, così come non appare strutturale l’incremento delle entrate fiscali dovuto alla maggiore tassazione delle plusvalenza finanziarie (titoli di stato esclusi) dal 20% al 26%, almeno per quanto riguarda le plusvalenze derivanti dalle previste cessioni di quote di Banca d’Italia detenute dalle maggiori banche italiane.
Il tutto senza contare che non esiste un mercato per tali quote e che la maggiore tassazione delle “altre” plusvalenze rischia di scoraggiare gli scambi azionari e obbligazionari in Italia e di rivelarsi un boomerang come già la “Tobin Tax”. Mentre sono certi alcuni incrementi di spesa, come quelle legate al “piano scuola” da 2 miliardi (che a fronte di 8.500 istituti pubblici equivale a circa 235 mila euro per istituto) o al “piano casa” da 1,3 miliardi. Speriamo bene, ma la sensazione è che ci sarà da prepararsi quanto meno a un confronto serrato in sede Ue e che forse sarebbe meglio arrivarci oltre che coi numeri del Def con qualche stima di quanto costerebbe un’uscita concordata e “pacifica” dall'euro, fosse anche solo come strumento di pressione nelle trattative con la Germania e gli altri partner europei o per aver chiaro che alternative non esistono (o se sì a che costo e per chi).