Ci sono giorni (molto rari) in cui non ho alcun rimpianto per il mio precedente lavoro di gestore patrimoniale. Sono giorni come quelli attuali, in cui senza alcuna vera ragione i mercati finanziari salgono, anche a fronte di dati macroeconomici e di finanza pubblica che sarebbe eufemistico definire positivi o finanche neutrali. Intendiamoci: i mercati sono sempre razionali, nonostante quel che possa pensare chi non li conosce, e se salgono (o scendono) un motivo, magari chiaro ex post, ce l’hanno sempre. Così in questo momento tutte le borse salgono (e i titoli di stato pure, con conseguente calo dei rendimenti offerti) soprattutto perché la Bank of Japan ha annunciato pochi giorni fa che nei prossimi due anni raddoppierà la base monetaria. In soldoni, in Giappone si stamperà moneta (ovvero la banca centrale riacquisterà titoli di stato comprandoli sul mercato ed iniettando copiosa liquidità al sistema, mandandone al contempo i rendimenti, già modesti, ancora più sottozero in termini reali).
Per coloro che dicono che il problema dell’attuale crisi in cui si dibatte l’Europa è l’euro, sarà il caso di ricordare che sebbene non sia più possibile ai singoli paesi stampare moneta (come si poteva fare prima della moneta unica), è stata la stessa Bce sotto la guida di Mario Draghi a imitare la Federal Reserve di Bernanke e a riprendere alla grande a stampar moneta, o a iniettare liquidità al sistema (meccanismo perfettamente equivalente) ben prima della Bank of Japan, prestando oltre mille miliardi di euro alle maggiori banche europee per tre anni ad un tasso dell’1% ed innescando così un meccanismo “virtuoso” (alcuni investitori che di rendimenti vivono hanno peraltro dubbi riguardo a tale “virtuosità” e parlano di prezzi pericolosamente drogati e tali da sottostimare significativamente i rischi sottostanti) che ha ridotto i tassi chiesti dai mercati per sottoscrivere titoli di stato e obbligazioni private (o per detenere azioni).
Una riduzione del “premio per il rischio” che ha consentito agli emittenti di migliore qualità di rifinanziarsi sul mercato a tassi in calo (tanto che alcune banche hanno iniziato a rimborsare anticipatamente le somme offerte loro dalla Bce potendosi rifinanziare a costi inferiori), anche perché con una seconda mossa, finora decisiva, lo stesso Draghi nell’autunno scorso ha fatto “vedere il bazooka” annunciando un nuovo programma Mto di aiuti a eventuali paesi membri di Eurolandia “virtuosi” ma in difficoltà, aiuti consistenti in acquisti illimitati di titoli di stato dei paesi sotto scacco a condizione che gli stessi si impegnassero a varare nuove riforme strutturali e misure correttive dell’andamento del proprio indebitamento. La cosa ha funzionato, ma il diavolo ci ha messo la coda, sotto forma di una recessione che è andata estendendosi dalla sponda Sud dell’Europa al Centro, fino a lambire i paesi “virtuosissimi” del Nord.
Questo ha portato ad una crescita in tutta Europa del debito pubblico, complici anche gli extra costi legati ai salvataggi attivati per paesi come Grecia, Irlanda, Portogalo, Spagna e Cipro, e per l’Italia le cose si sono fatte più serie (anche se lo spread tra Btp e Bund ha continuato a calare ed è ora attorno al 3% sulla scadenza decennale), tanto che il Documento di economia e finanza (Def) approvato ieri dal Consiglio dei ministri e poi pubblicato in serata sul sito del ministero dell’Economia e finanze parla chiaro: il debito pubblico quest’anno toccherà il 130,4% del Pil, dieci punti peggio che nel 2011 (quando arrivò al 120,8%) ed oltre 3 punti peggio che a fine 2012 (quando era già salito al 127%), e il rientro potrebbe essere lento e penoso, dato che il Pil stesso è visto in calo di un altro 1,3% quest’anno (ma non doveva vedersi la ripresa nel secondo semestre?) per poi rimbalzare di altrettanto l’anno prossimo (tornando dunque ai livelli di fine 2012) e oscillare “virtuosamente” tra l’1,3% e l’1,5% negli anni successivi. Ipotesi sulla carta, rispetto alle quali già Istat e Banca d’Italia hanno segnalato il rischio di un eccessivo ottimismo e che il governo che verrà dovrà verificare.
Una verifica cruciale, perché stesso Def segnala come anche in caso di una conferma dell’Imu nella forma attuale (mentre in teoria dal 2015 non dovrebbero essere più in vigore l’Imu sulla prima casa e l’aumento dei moltiplicatori con cui sono calcolate la rendite catastali), la dinamica dell’indebitamento “si avvicina al livello necessario al conseguimento dell’equilibrio strutturale di bilancio”. E’ la scoperta dell’acqua calda, visto che il debito a fine 2012 era pari a 1988,658 miliardi di euro, contro i 1565,916 miliardi del Pil, e costava un 3,11% all’anno (dato medio tra lo 0,81% dei Bot a 3 mesi e il 5,65% dei Btp a 10 anni) e siccome come ricordava l’amico Mario Seminerio il tasso di crescita nominale necessario a mantenere inalterato il rapporto debito/Pil è pari al costo medio del debito pubblico moltiplicato per il rapporto debito/Pil, sarebbe necessaria una crescita (nominale) del 4% per mantenere l’attuale “equilibrio” dei conti.
Siccome nonostante gli sforzi “reflazionistici” delle banche centrali, compresa come detto la Bce (con buona pace della Germania) l’inflazione resta modesta in tutta Europa ed in Italia è già calata dal 3,3% del primo trimestre dello scorso anno all’1,9% di fine febbraio scorso, questo significa che o risale l’inflazione (ma il mercato non se ne accorge e non richiede un maggior rendimento dei titoli di stato), o si riesce a vedere una crescita reale del Pil attorno al 2% (cosa che non è neppure nelle più rosee previsioni del governo in carica e difficilmente lo sarà anche nel prossimo futuro, in assenza di profonde riforme strutturali di non agevole realizzazione) o l’equilibrio dei conti salterà inevitabilmente. Quando? Secondo il Def l’anno critico sembra essere il 2015, quando il futuro governo (ribadisco: anche se fosse confermata l’Imu attuale, con buona pace di chi promette di ridurla o addirittura abolirla, ipotesi sia chiaro che non ha alcuna possibilità di essere attuata, visto che dall’Imu dipendono oltre 24 miliardi di entrate fiscali) dovrà pensare a “interventi compensativi” che il Def di Monti stima nell’ordine di 1,4 punti percentuali di Pil tra 2015 e 2017.
A questo punto ha forse ragione Willem Buiter, capo economista di Citigroup, a ipotizzare per il 2015 ristrutturazioni del debito sovrano europeo (tra cui quello italiano). Chi vuole investire con una certa tranquillità ha dunque ancora un anno, forse un anno e mezzo, prima che sui mercati tornino a circolare ipotesi poco rassicuranti in grado di indurre ad un nuovo calo delle quotazioni (ossia a un rialzo dei rendimenti), chi invece scommette sulle borse deve sperare che la crescita prosegue a un ritmo blando, senza troppi scossoni in avanti (che indurrebbero le banche centrali a ritirare il loro sostegno ai mercati) né rallentamenti (che indurrebbero gli investitori a richiedere un maggior premio per il rischio, dunque un calo delle quotazioni). Nel frattempo, però, i mercati continuano a correre, infischiandosene allegramente dei rischi o scommettendo su ulteriori provvidenziali interventi “alla giapponese” anche da parte di Mario Draghi, col rischio di far fare la figura dei fessi ai miei ex colleghi che non investiranno ma anche col rischio di portare a perdite elevate coloro che investiranno in ritardo, andando poi incontro a eventuali storni del mercato. Sì, decisamente ci sono rari giorni in cui non mi dispiace fare più il mio vecchio mestiere di gestore patrimoniale.