La Federal Reserve negli Stati Uniti riduce ancora (da 75 a 65 miliardi di dollari al mese) gli ulteriori acquisti di bond sul mercato; la Turchia ha già alzato i tassi ufficiali (il tasso repo a una settimana è passato dal 4,5% al 10%, il tasso overnight dal 7,75% al 12%, quello sui depositi overnight dal 3,5% all’8%) per arginare il crollo della lira turca e la fuoriuscita di capitali ma la mossa potrebbe non bastare e già qualche operatore inizia a scommettere su un prossimo “bis”; persino la Bank of Japan potrebbe decidere di ridurre gli incentivi monetari alla crescita. Sembra un quadro pessimo per mercati obbligazionari e per i mercati emergenti/periferici in genere, ma “stranamente” la domanda di titoli di stato italiani resta forte e asta dopo asta i rendimenti sul debito pubblico calano verso nuovi minimi.
Prima è stata la volta dei Ctz a due anni, collocati lunedì scorso per 2,5 miliardi a tassi in calo all’1,031% dall’1,346% di dicembre, poi è toccato, ieri, ai Bot a sei mesi (scadenza 31 luglio 2014), collocati per 8 miliardi (a fronte di 9,77 miliardi di titoli in scadenza) ad un rendimento medio lordo dello 0,54% annuo contro lo 0,827% dell’asta di dicembre e nuovamente sui livelli visti a fine novembre (0,539%), infine sono stati i titoli a lungo termine a far sorridere il Tesoro italiano che stamane ha collocato 3 miliardi di Btp maggio 2019 al tasso medio lordo del 2,43% annuo, nuovo minimo dall’introduzione dell’euro ed altrettanti miliardi di Btp marzo 2024, al tasso medio lordo del 3,81% (minimo dall’agosto 2010), rispetto al 4,11% dell’asta di fine dicembre. A completare il tutto, sempre oggi, il Cct novembre 2018 indicizzato all’inflazione europea è stato assegnato per 1,46 miliardi (appena sotto gli 1,5 miliardi massimi preventivati) al rendimento lordo dell’1,79% (dal 2,11% della precedente asta).
La crisi di fiducia dei mercati nei confronti dell’Italia è dunque passata? Non del tutto: il rendimento del Btp decennale guida italiano oscilla sempre sul 3,87% contro il 3,71% del decennale spagnolo e l’1,74% del Bund tedesco, come dire che l’Italia deve pagare sul proprio debito pubblico (superiore ai 2.100 miliardi) circa 45 miliardi di euro l’anno in più (il famigerato "spread") di quanto non pagherebbe Berlino, ovvero 3 miliardi e mezzo in più di quanto non pagherebbe Madrid. Calcolate voi a quante manovre correttive questo equivalga e visto che sul risultato particolarmente positivo delle ultime aste italiane sembra aver influito una circostanza tecnica (domani verranno rimborsati 14,5 miliardi di titoli zero coupon) più che un’autentica “voglia di Italia” (tanto che la domanda del Btp 2019 oggi è stata pari a 1,34 volte l’offerta contro le 1,28 volte dell’asta precedente, ma quella del Btp 2024 è calata a 1,32 volte contro le 1,49 volte del precedente collocamento), un paio di consigli che si possono trarre dalla crisi dei mercati emergenti vale la pena di darli.
Primo: i paesi che non fanno riforme per rendere competitiva la propria economia sono destinati prima o poi a schiantarsi contro un muro chiamato realtà. Vale per chi come India, Cina e Turchia resta tutto sommato un “oggetto misterioso” che ha saputo godere, ben oltre i propri meriti, degli imponenti flussi di denaro che da alcuni anni girano come una trottola impazzita sui mercati finanziari mondiali (flussi figli dell’unica strategia che le banche centrali occidentali hanno saputo seguire per evitare il completo crollo dei mercati stessi, quella di fornire liquidità ad libidum), ma non ha saputo o voluto sfruttare il momento favorevole per fare riforme tanto necessarie quanto fatalmente impopolari in paesi che apparentemente stanno benissimo, con una crescita tra il 5% e il 10% l’anno. Ma vale ancora di più per chi come l’Italia non riesce a crescere, in termini reali, più che qualche frazione di punto percentuale da oltre 15 anni (e si ritrova tuttora con un Pil a livello del 7% inferiore a quelli di fine 2007, prima dell’esplosione della crisi mondiale).
Secondo: con le nostre principali banche in questi mesi sotto esame della Bce (come le loro principali concorrenti europee) e che ogni giorno di più si scoprono piene di crediti a dir poco dubbi (non meno di 150 miliardi a rischio, il che vuol dire che di questo un buon 70%-80% è di fatto perso) e debbono sperare nella clemenza dei mercati per rafforzare il proprio capitale (come faranno Banco Popolare, Bpm, Banca Carige, Mps e non è detto sia finita qui) o in qualche “cavaliere bianco” pronto a farsi carico di un processo di integrazione (come potrebbero fare Bper con Banca Etruria e Lazio, o Banco Desio con la Popolare di Spoleto, piuttosto che Popolare di Vicenza con Veneto Banca), è inevitabile che il credito continui a scarseggiare ancora per qualche trimestre. Nel frattempo il calo della ricchezza della famiglie italiane, le ipotesi di tassazioni patrimoniali che alcuni, come la Bundesbank, suggeriscono e l’incapacità politica, finora, di innescare un processo di riforme economiche ed amministrative contribuiscono a far sì che in Italia continui ad essere elevato il tasso di mortalità delle imprese. Secondo dati Cribis D&S ripresi anche dal Sole24Ore, ad esempio, l’anno passato in Italia ci sono stati 14.269 fallimenti, il 14% in più rispetto al 2012 e il 54% in più rispetto al 2009.
In cinque anni hanno chiuso i cancelli 59.570 imprese italiane con un trend di crescita costante che ha visto, per ora, il suo picco nell’ultimo trimestre 2013 col nuovo record di 4.257 fallimenti (+14% su base annua), il dato peggiore degli ultimi 20 trimestri e scusate se è poco. Ora: se le banche non possono (e per ora non possono) prestare altro denaro, se le imprese faticano a sopravvivere e dunque non sono in grado di creare nuova ricchezza, quanto pensate possano reggere i conti pubblici in assenza di riforme strutturali, che non vuol dire solo cercare di tagliare il costo del lavoro (che pure è cresciuto negli ultimi anni più che in paesi concorrenti come Germania o Francia, a causa però spesso di un’imposizione fiscale più elevata) né alzare l’età pensionabile (che la Germania torna a ridurre in casa propria) o abbattere l’istruzione o la sanità pubblica.
Ma certo se non si trova il modo di ridurre i costi, allentare la pressione fiscale, investire in innovazione, rendere più agevole assumere oltre che licenziare personale e in generale avviare attività imprenditoriali, introdurre maggiore competitività in tutti i settori economici rompendo monopoli, oligopoli e rendite assortite, la “luna di miele” dei mercati col debito pubblico italiano potrebbe presto o tardi cessare, con tutti i rischi che questo comporterebbe.