
C'erano una volta le guerre commerciali. Poi è arrivata quella tra Stati Uniti e Cina, che ha superato ogni precedente per durata, intensità e – diciamolo – grottesca teatralità. Se vi sembra assurdo che nel 2025 le tariffe doganali tra due delle più grandi economie del mondo siano arrivate al 145 per cento, non siete soli. Nemmeno gli economisti più cinici avrebbero scommesso su una "tabella con dati inventati" sfruttata per trasformare l’interdipendenza globale in una corsa armata a colpi di dazi, ban su droni, esportazioni di pollame vietate, e post su X della portavoce cinese che cita Mao con l’hashtag #Pace.
Dieci giorni di delirio a Las Vegas
Nel giro di dieci giorni, lo scontro ha fatto storia nei libri di economia internazionale (post-apocalittica). Il 2 aprile Trump ha imposto dazi variabili tra il 10 e il 50 per cento su 180 Paesi, colpendo la Cina con un primo 34 per cento. Pechino ha risposto subito, ma l’escalation si è intensificata rapidamente: l’8 aprile Washington ha alzato i dazi sull’import cinese all’84 per cento, e la Cina ha reagito allo stesso livello. Il 10 aprile, Trump ha concesso una tregua di 90 giorni a quasi tutti i partner, escludendo la Cina, a cui ha invece alzato i dazi al 125%.
Mentre Trump rilancia tariffe come se fossero chips al tavolo del casinò geopolitico (e c’è chi parla di insider trading), la Cina risponde con mosse calibrate: restrizioni su terre rare (fondamentali per la produzione hi-tech), indagini su DuPont, svalutazione dello Yuan, rafforzamento dei controlli sui capitali, stop a film hollywoodiani, possibile sospensione della cooperazione sul fentanyl (sostanza che negli Usa causa 100 mila morti l’anno, ne abbiamo parlato qui) e nuove liste nere aziendali che sembrano uscite da un romanzo distopico di metà secolo. Il tutto mentre Xi Jinping chiede all’Europa di "resistere al bullismo" americano, incontra il presidente del governo spagnolo, fa un ricorso all’Omc e prepara un viaggio in Vietnam – dove, tra l’altro, molti beni cinesi passeranno per cercare di eludere proprio quei dazi americani che hanno scatenato tutto questo.
La recessione in stile Beckett
La situazione è così caricaturale che persino i dati fanno fatica a stare al passo con la narrazione: le tariffe servirebbero a contenere la Cina, ma Pechino esporta sempre meno negli Usa e sempre di più nell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico). Trump vorrebbe far tornare le fabbriche in patria, ma intanto Apple scappa in India e, sotto pressione dal comparto tech, esenta smartphone, chip e computer dai dazi, proteggendo i giganti nazionali, che producono in Cina l’80% degli iPhone per il mercato domestico. Nel mezzo, un paradosso: nessuno vuole cedere, ma tutti vogliono negoziare, accrescendo il rischio di recessione globale e negli Usa (stimato da Goldman Sachs al 45%). Tutti invocano il libero scambio, ma con il coltello tra i denti. Tutti parlano di futuro multipolare, ma si comportano come in una commedia dell’assurdo commerciale in stile Beckett: in attesa di Godot, o meglio, di un accordo.
E allora, cosa sta davvero succedendo? Come siamo passati dai dazi agricoli alla strategia delle terre rare, e perché oggi è più facile capire la posizione cinese leggendo i post su WeChat che ascoltando un briefing alla Casa Bianca? In questo articolo proviamo a mettere ordine nel caos, partendo da una domanda tanto semplice quanto cruciale: quanto di tutto questo è ancora economia, e quanto è solo geopolitica in cerca di una narrativa?
Per capire realmente un tale livello di complessità, ovvero come si è arrivati a questo e cosa potrebbe accadere, è necessario fare un passo indietro e ripercorrere alcune tappe: la guerra commerciale Usa-Giappone dell’80, la crisi finanziarie del ‘97 e del 2008, e il primo mandato Trump nel 2016. Questo ci permetterà di comprendere il quadro attuale e ipotizzare alcuni scenari per il 2030 (con alcuni insight bonus dal glorioso 1930).
Giappone: il decennio perduto
Nel 1980, gli Stati Uniti aprivano il primo vero fronte di una lunga serie di guerre commerciali contro l’Asia orientale. Il bersaglio non era la Cina – allora ancora fresca di Rivoluzione culturale e chiusa sotto Deng Xiaoping – ma il Giappone, colpevole – secondo Washington – di inondare il mercato americano con auto, elettronica e acciaio a basso costo. In quegli anni, il Giappone era visto come la minaccia industriale per eccellenza: auto Toyota, TV Sony, acciaio Nippon Steel. Il deficit commerciale USA esplodeva, e Washington iniziò a imporre dazi mirati, pressioni bilaterali e accuse di concorrenza sleale.
Nel 1985, su spinta americana, si firmò il celebre Plaza Accord, con cui Tokyo accettò di rivalutare lo yen del 50 per cento rispetto al dollaro. L’export nipponico perse competitività, ma il capitale inondò l’economia domestica, creando una gigantesca bolla immobiliare e azionaria. Quando scoppiò (1991), iniziò quello che i giapponesi chiamano “il decennio perduto” – che in realtà durò tre decenni. Perché il Giappone accettò? Per dipendenza strategica, economica e militare. Tokyo non poteva resistere a lungo alle pressioni.
Cina: più forte, più assertiva, meno dipendente
La Cina non è il Giappone. L’economia cinese è molto più estesa e diversificata di quella giapponese dell’epoca, ha una minore dipendenza dagli Usa, e una rete di partner internazionali (costruita anche tramite la Belt and Road Initiative); non è soggetta a una subordinazione politica/militare. E, soprattutto, ha appreso la lezione del vicino. Inoltre, quando The Donald ha lanciato i dazi nel 2018, la Cina non ha ceduto. Ha risposto colpo su colpo: dazi agricoli, restrizioni doganali, ritorsioni sui beni americani, reagendo con un piano di lungo periodo: autosufficienza tecnologica, riduzione della dipendenza dal dollaro, diversificazione dei partner. A differenza del Giappone, Pechino non può permettersi una recessione indotta da concessioni unilaterali. La sua leadership ha ancorato la legittimità politica alla crescita economica e alla proiezione globale. Cedere troppo significherebbe perdere controllo interno.
Dal 1997 al 2008: le crisi che spiegano il presente
Ma c’è un altro passaggio chiave in questa storia. La crisi finanziaria asiatica del 1997. Quando le economie del Sud-est asiatico crollarono sotto l’attacco speculativo, la Cina (che si era appena aperta ai mercati stranieri) osservò e capì: mai più vulnerabili ai capitali occidentali. Da allora Pechino ha costruito un muro: 3.000 miliardi di dollari di riserve, controllo sui movimenti finanziari, e un modello di crescita basato sull’export. Quel modello ha generato squilibri enormi: deficit Usa, surplus cinesi, catene globali iper-integrate. Tutti elementi che esplodono nel 2008, insieme alla crisi dei mutui subprime. Quella crisi segna un altro punto di svolta: gli States capiscono che la globalizzazione li ha resi vulnerabili. Il populismo sovranista e protezionista si diffonde, fino a esplodere con Trump.
Negli ultimi decenni, la Cina ha beneficiato più degli Stati Uniti dalla globalizzazione (PIL pro capite +196 per cento contro +25 per cento), alimentando un consenso bipartisan negli Usa – tra Democratici e Repubblicani – sulla necessità di contenerne l’ascesa. Ma questa narrativa spesso ignora un punto fondamentale: la Cina è ancora in una fase di sviluppo accelerato, iniziata solo negli anni ’80, a differenza di Europa e Usa che crescono da due secoli. Pechino, quindi, considera fisiologico crescere (o inquinare) di più, proprio come fecero le potenze occidentali nella loro fase industriale. Se per anni si è cercato di mediare su questo punto, ora questo punto è usato per polarizzare.
Trump 1.0: cosa non abbiamo imparato
Tra il 2018 e il 2020, l’amministrazione Trump ha imposto dazi su oltre $350 miliardi di beni cinesi. Pechino ha risposto colpendo 110 miliardi di export USA. Il commercio bilaterale è crollato: il deficit è sceso da 375 a 308 miliardi, ma solo per calo degli scambi. L’agricoltura americana ha perso il mercato cinese e ha ricevuto 28 miliardi in sussidi. I costi per le famiglie USA sono aumentati in media di $800 l’anno. Il Phase One Deal del 2020 è stato disatteso: Pechino ha raggiunto solo il 57 per cento degli acquisti promessi, causa anche il Covid. La guerra commerciale non ha risolto nulla, ma ha aperto la strada al decoupling strategico.
Infatti, dal 2018 ad oggi, lo scontro Usa-Cina non si è mai fermato davvero. Le imposizioni di Trump sono rimaste, Biden le ha confermate e in alcuni casi rafforzate: +100 per cento su auto elettriche cinesi, +50 per cento su pannelli solari, barriere su chip e batterie. Pechino ha risposto in modo meno “numerico” e più qualitativo: restrizioni su materiali critici, controlli sugli investimenti, sostegno massiccio alle filiere interne, controllando oggi un terzo della manifattura globale. Nessun Plaza Accord. Nessuna concessione unilaterale.
Oggi: la guerra in risposta alla fragilità
Nonostante l’escalation attuale, la Cina affronta la nuova fase della guerra commerciale da una posizione di forza relativa, molto diversa da quella del Giappone negli anni ’80 o della stessa Cina di dieci o vent’anni fa. Dopo la prima ondata di dazi, Pechino ha adottato contromisure strutturali: oggi gli Stati Uniti rappresentano solo il 15 per cento dell’export cinese e appena il 6 per cento dell’import. Il principale partner commerciale è diventato l’ASEAN. E in termini di PIL a parità di potere d’acquisto, la Cina ha superato gli USA (18,75 per cento contro 15,05 per cento).
Tuttavia, questa forza nasconde vulnerabilità interne crescenti, come sottolinea il professor Yao Yang: il mercato del lavoro è sotto pressione mentre la classe media cinese non è più disposta a sacrifici economici come in passato. Il rallentamento dell’export rischia di spingere molte imprese verso il mercato interno, aumentando la pressione deflattiva. A ciò si aggiungono la crisi fiscale dei governi locali e il crollo del settore immobiliare, che rappresenta quasi la metà della domanda interna. In questo contesto, Yao propone una linea pragmatica: negoziare con gli USA aprendo settori come i servizi in cambio di investimenti, rilanciare le riforme strutturali e sostenere i consumi interni, per consolidare la stabilità economica senza isolarsi dal sistema globale.
Autogol e Armi a doppio taglio
I dazi di ritorsione, i controlli su terre rare, le restrizioni sulle aziende Usa sono tutte armi a doppio taglio. Colpire Hollywood o Google può funzionare a livello simbolico, ma rischia di allontanare ulteriormente gli investimenti esteri, già in forte calo. Svalutare lo yuan potrebbe aiutare le esportazioni, ma aggraverebbe la fuga di capitali e i costi delle importazioni. Perfino la carta estrema della vendita di Treasury americani (oltre $760 miliardi in portafoglio cinese) comporterebbe l’effetto collaterale di rafforzare lo yuan, riducendo la competitività cinese.
Nel frattempo, però, anche gli Usa rischiano un autogol: tariffe del 125/145 per cento aumentano i prezzi per le famiglie, colpiscono soprattutto i consumatori a basso reddito e rischiano di spingere i fornitori cinesi a triangolare via Paesi terzi come Vietnam o Cambogia, drenando il gettito doganale su cui Trump conta per finanziare la propria agenda. In questo contesto, entrambe le superpotenze si ritrovano più vulnerabili che forti.
E l’Europa? Terra di mezzo
Zhongguo, il termine cinese per riferirsi alla Cina significa letteralmente “terra di mezzo”. L’Europa osserva da una posizione scomoda, e torna anch’essa ad essere una terra di mezzo tra due fuochi. Da un lato, ha beneficiato di alcune aperture cinesi, dall’altro è sempre più preoccupata dalla dipendenza tecnologica e industriale. Bruxelles parla ancora di “de-risking”: niente rottura totale con Pechino, ma più strumenti per difendersi (controlli sugli investimenti, indagini sui sussidi, screening sulle filiere critiche). Nel mentre, si prepara anche a ridurre la dipendenza strategica dal partner americano, per lo meno su alcuni assi, come con il piano di riarmo.
A differenza della Cina (che ha fatto accrescere la dipendenza russa riducendo la propria dagli Usa), l’Ue non fu così reattiva nel prendere contromisure di questo tipo dopo l’invasione della Crimea nel 2014 e dopo il primo Trump nel 2018. Se prima però non sarebbe stato facile, oggi lo è ancora meno. Il caso del Giappone insegna agli stati europei cosa potrebbe significare applicare delle concessioni unilaterali, e al tempo stesso mostra quanto sia complesso farlo sotto un rapporto di dipendenza strategica. Il Giappone però non aveva possibilità da solo di competere con l’economia Usa negli anni’80, l’Ue invece oggi -se fosse coesa- ne sarebbe più che in grado.
Gli scenari al 2030
Nel percorso verso il 2030, il futuro della guerra commerciale resta aperto a diverse traiettorie. Nel primo scenario, il più realistico è una rivalità gestita: i dazi restano ma diventano selettivi. Si mantiene una rivalità strutturale, ma con canali di dialogo attivi e accordi su settori chiave (come AI, clima e farmaceutica). Il decoupling prosegue controllato. La globalizzazione diventa più selettiva, ma sopravvive. Nel secondo scenario, la tensione aumenta, il decoupling è duro: gli Usa allargano le restrizioni a Paesi terzi e la Cina risponde con una strategia di autonomia industriale e consolidamento regionale. Il commercio globale si divide in due blocchi distinti, e l’Europa si ritrova in equilibrio, con capitali e investimenti in fuga verso mercati "neutrali".
Il terzo scenario è il più critico: una frattura geopolitica (Taiwan, Medio Oriente, Ucraina, Groenlandia?) rompe i residui canali di cooperazione. Le sanzioni diventano la norma, le istituzioni multilaterali (Omc, Onu) vengono marginalizzate definitivamente, e il commercio si ricompone su base bilaterale o regionale. Le aziende devono scegliere da che parte stare, con effetti profondi su innovazione, costi e filiere. Infine, un quarto scenario ipotizza che il clima multipolare – aggravato da frizioni tra Trump e gli alleati – possa spingere l’UE fuori dall’orbita occidentale, portandola a cercare una terza via: più autonoma, forse attratta dal blocco euroasiatico, o in aperto contrasto con esso. In questo quadro, l’Ue diventerebbe l’ago della bilancia di un nuovo ordine mondiale, o rischierebbe di disgregarsi.
Cosa ci insegnano 45 anni di guerre commerciali in Asia?
Pensare al 2030 non può che ricordarci cosa accadde un secolo esatto prima con la “grande depressione". Nel 1930, nel pieno di un’ondata nazionalista postbellica e dopo una devastante pandemia globale, gli Stati Uniti approvarono il famigerato Smoot-Hawley Tariff Act, che impose dazi record su oltre 20mila prodotti importati. Quella mossa, pensata per proteggere l’agricoltura e la manifattura nazionale, scatenò una reazione a catena di ritorsioni in Europa e nel mondo. I dazi non causarono la crisi, ma la aggravarono, accelerando il collasso del commercio mondiale, che in 5 anni crollò di oltre il 60 per cento.
La lezione è quindi doppia. Primo, che i dazi non risolvono gli squilibri: non li risolsero un secolo fa, non lo risolsero col Giappone 40 anni fa, non l’hanno fatto nel 2018 e non lo faranno ora. Secondo, che ogni guerra commerciale è anche una guerra geopolitica: non basta guardare ai numeri, bisogna guardare alla sovranità, alla sicurezza, alla narrazione interna di ciascun paese. Il Giappone degli anni ’80 era un alleato che doveva cedere. La Cina di oggi è un avversario sistemico che non può farlo. Eppure, la strategia americana sembra ripetere lo stesso schema: colpire, contenere, rallentare. Con un rischio evidente: che spinga Pechino a chiudersi ancora di più, a cercare altre sponde, accelerando proprio quel decoupling globale che l’Occidente vorrebbe evitare e che spingerebbe verso la polarizzazione e la deglobalizzazione.
Disaccoppiamento e Deglobalizzazione
I dazi sono solo la superficie visibile di un cambiamento più profondo. Quello che stiamo osservando non è soltanto una guerra commerciale, ma una crisi dell’ordine globale costruito negli ultimi quarant’anni. La globalizzazione – intesa come apertura progressiva dei mercati, interdipendenza delle filiere e regole multilaterali condivise – sta cedendo il passo a una nuova fase più frammentata, più conflittuale, più insicura. Le guerre tariffarie, le sanzioni incrociate, i sussidi massicci alle industrie strategiche e i blocchi settoriali sono ormai il linguaggio comune di questa transizione. Si parla di “deglobalizzazione” non perché il commercio stia finendo, ma perché sta cambiando natura: da orizzontale e cooperativo a verticale e selettivo, incentrato su logiche di sicurezza nazionale, controllo tecnologico e protezione strategica.
In questo contesto, è emerso con forza il concetto di decoupling – il disaccoppiamento strategico tra le economie di Usa e Cina. Non si tratta più solo di ridurre la dipendenza da un singolo fornitore o diversificare la filiera, ma di ridefinire completamente i legami economici tra due potenze rivali, creando filiere distinte, in particolare nei settori più sensibili: tecnologia, energia, dati, difesa. Il decoupling non è più uno scenario ipotetico, ma una strategia già in corso, perseguita in modo esplicito da Washington (con restrizioni sui chip, batterie, AI) e in modo più silenzioso da Pechino (con sostituzione di importazioni, autosufficienza tecnologica, controllo sui capitali).
Perché non è una nuova guerra fredda
Il problema è che questo non sta avvenendo in uno schema bipolare da guerra fredda, ma in uno schema multipolare, ovvero lo stesso che ha preceduto i due grandi conflitti globali. Uno schema in cui la mentalità bipolare non aiuta, perché spingere alla polarizzazione su due blocchi è un esercizio di equilibrio di potere, mentre farlo su più blocchi accresce l’instabilità. Cercare intenzionalmente disequilibrio in questo schema, significa giocare col fuoco.
Non è un ritorno alla Guerra Fredda, ma qualcosa di più caotico: un mondo multipolare senza regole fisse, dove le istituzioni internazionali vengono delegittimate quotidianamente dai poteri che le hanno costituite, dove non esistono più blocchi chiari, ma equilibri precari tra potenze regionali e interessi globali. In questo contesto, l’idea stessa di globalizzazione – come terreno neutro dove tutti possono crescere – è messa in discussione. La posta in gioco non è solo economica, ma politica e culturale: chi scriverà le regole del commercio globale del XXI secolo? E con quali valori? Il rischio, oggi, non è il disordine temporaneo, ma la normalizzazione del conflitto sistemico come nuovo standard. In altre parole: non è finita la globalizzazione, ma è finita la fiducia che la globalizzazione fosse per tutti.
