Bisogna capirlo Matteo Renzi: deve motivare un paese che dal 1997 non registra alcun recupero di produttività nei confronti dei suoi principali concorrenti internazionali, Germania in testa, che di conseguenza sta continuando a registrare l'assenza di una significativa crescita economica da allora e che col tempo sta vedendo venire al pettine una serie di nodi rinviati continuamente da decenni, uno per tutti essendo la trasformazione del sistema creditizio, ormai inadeguato a sostenere una qualsiasi ripresa economica degna di tale nome, per di più alle prese con rilevanti problemi legati alla “eredità” (leggasi “sofferenze”) di politiche erogatorie di un recente passato in cui agli amici si dava senza troppo guadare, a tutti gli altri si lesinava credito e facevano pagare più del necessario prodotti e servizi, grazie alla ridotta concorrenza del settore.
Ma affermare che il 2016 sarà l’anno in cui la ripresa salirà e le tasse scenderanno è francamente non solo stucchevole ma anche fuorviante, perché nella lingua italiana non vale la proprietà commutativa, per cui invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, anzi. E visto che contrariamente alle dichiarazioni del premier italiano il 2016 rischia di essere l’ennesimo anno di economia ben poco in crescita e di tasse poco o nulla in calo, è meglio fare chiarezza prima che la realtà si incarichi ancora una volta di farlo, ex post, a spese di milioni di (ignavi) contribuenti italiani.
Quanto alla crescita, non occorre essere grandi analisti né illustri storici dell’economia per ricordarsi come ogni anno di questi tempi governo e istituti previsori facciano a gare a prevedere mirabilie per l’anno venturo, accompagnandole quasi sempre con qualche recriminazione per i dati acquisiti dell’anno che va finendo che, curiosamente, hanno ancora una volta deluso le attese dell’anno precedente. Quest’anno non ha fatto eccezione per due settori portanti della nostra economia come il credito e il settore delle costruzioni, come ricordava qualche giorno fa Mario Seminerio.
Quanto alle tasse, non lascia spazio a molti dubbi Francesco Daveri su Lavoce.info : le tasse non solo non sono scese quest’anno, ma saliranno nel complesso anche nel 2016 e negli anni successivi. Dopo l’approvazione della Legge di Stabilità 2016 avvenuta pochi giorni fa, si può calcolare che le entrate totali delle pubbliche amministrazioni si incrementeranno di 10,6 miliardi nel 2016 rispetto al 2015 (da 788,7 a 799,3 miliardi), di altri 20,7 miliardi nel 2017 rispetto al 2016 e di ulteriori 25 miliardi nel 2018 rispetto al 2017. La crescita dunque prosegue e anzi accelera.
Renzi può peraltro affermare (ed è vero) che grazie alla Legge di Stabilità appena varata l’incremento delle entrate delle pubbliche amministrazioni sarà minore di quello che si sarebbe verificato ex ante (gli incrementi sarebbero stati di 28,7, 25,8 e 23,5 miliardi all’anno nel triennio 2016-2018). Ma si è trattato del miglior risultato ottenibile o era possibile fare di più e meglio? Per capirlo occorre chiedersi perché le tasse non siano finora calate e la ripresa non si sia finora verificata.
Anzitutto la “spending review” è ormai solo un animale mitologico, dato che gli interventi previsti dalle ultime due Leggi di Stabilità (il “bonus Irpef” di 80 euro lordi al mese per una parte dei dipendenti pubblici, il “bonus cultura” da 500 euro lordi per gli insegnanti, peraltro tuttora senza regole per la rendicontazione e quindi rimasto sulla carta, i previsti “bonus studenti” da 500 euro e “bonus forze dell’ordine” da 80 euro lordi al mese) hanno prodotto non un calo ma un incremento netto della spesa pubblica (di 9 miliardi). La stessa composizione della spesa pubblica ne rende difficile una rimodulazione significativa, visto che le uniche due voci su cui si potrebbe intervenire sono quelle relative alla sanità e alle pensioni.
Poi perché la produttività delle aziende italiane dopo essere calata sino alla fine degli anni Novanta, da oltre 15 anni non ha mostrato alcun recupero rispetto a concorrenti diretti dell’Italia come Germania o Francia. Un paese strangolato da un passato in cui la crescita è stata alimentata quasi sempre a debito e che tuttora non riesce a ridurre il debito stesso, visto che gli interessi che paga su di esso continuano a crescere in valore reale in misura superiore alla crescita della ricchezza del paese (tanto che il rapporto debito/Pil anziché ridursi si limita, al più, a crescere più lentamente, peraltro a costo di un saldo primario costantemente positivo, nel 2014 pari all’1,6% del Pil dopo essere stato pari all’1,9% del Pil nel 2013 come segnalato dall’Istat), sembra destinato a dover sempre sperare che in futuro qualcosa possa miracolosamente cambiare in meglio.
Ma se non si attrezzerà perché ciò accada l’unica alternativa concreta alla morte per soffocamento dell’intero sistema economico nazionale sembra restare una qualche discontinuità strutturale, quale potrebbe essere un default più o meno concordato sul debito pubblico, un intervento più o meno socialmente equo sul risparmio privato o l’uscita dall’area dell’euro. O forse un mix delle tre misure, quale che sia la sequenza e la magnitudo delle singole misure che comporranno il mix, con tutte le conseguenze (certamente poco piacevoli) che questo comporterebbe. Non sarebbe dunque meglio spiegare per tempo agli italiani in che situazione stanno e cosa rischiano loro e i loro figli, per poter trovare una soluzione condivisa dall’intero corpo sociale ed in grado di ridare un futuro al paese? Purtroppo pare che politicamente questo non paghi, se non a piccolissime dosi e dopo infiniti mercanteggiamenti tra le varie lobbies e corporazioni in cui il paese resta diviso.