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Davide Serra: poca competività e troppa corruzione in Italia

Dopo Giorgio Squinzi, anche Salvatore Rossi, vice direttore generale di Banca d’Italia, e Davide Serra, gestore del fondo Algebris, provano a dare la propria ricetta per far uscire l’Italia dalla crisi…
A cura di Luca Spoldi
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Davide Serra

Le ragioni della crisi in Italia? Anzitutto per quanto riguarda la crescita del debito per via di un’evasione fiscale cronica, favorita dal “partito degli evasori”, un sistema tributario troppo complesso e una spesa pubblica troppo elevata, ma anche stipendi pubblici troppo alti e pensioni pubbliche ancora troppo elevate, mentre per quanto riguarda il calo della crescita a causa della bassa competitività, di una scarsa presenza di industrie italiane in settori “vincenti”, di troppe tasse sulle imprese e di una corruzione troppo elevata, una generale bassa produttività, un numero troppo basso di lavoratori attivi, un costo dell’energia troppo elevato, un sistema giudiziario inefficiente e scarsi investimenti in ricerca e sviluppo. Non ha dubbi Davide Serra, fondatore e gestore del fondo Algebris, famoso per le sue battaglie contro l’establishment finanziario italiano (in particolare riguardo il management di Generali), intervenuto stamane a Capri ad un convegno sui “Nuovi sentieri per la crescita per l’Italia”.

La ricetta di Serra è solo l’ultima presentata in questi giorni dopo che già Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, e Salvatore Rossi, vice direttore generale della Banca d’Italia, avevano illustrato le proprie nei giorni precedenti. Secondo Serra non ci sono peraltro molte alternative a proseguire con “l’agenda Monti”, perché fallire gli obiettivi concordati coi partner europei farebbe precipitare la fiducia dei mercati nei confronti dell’Italia, facendo concretizzare il rischio di un default che le misure adottate dal governo Monti hanno per il momento ridotto al minimo. Sul fatto che sia importante “nonostante il forte peggioramento del quadro macroeconomico” rispettare “l’impegno preso a livello europeo di ricondurre quest’anno il disavanzo al di sotto del 3%” del Pil è d’accordo anche Banca d’Italia, secondo cui se il Belpaese riuscirà l’anno prossimo ad essere “tra i pochi paesi dell’area non sottoposti alla Procedura per disavanzi eccessivi”, questo dovrebbe riuscire a rafforzare la fiducia dei mercati e a dare un segnale positivo ai partner europei circa l’impegno a rispettare le regole di bilancio comuni.

Per riuscirvi, ha spiegato ieri il numero tre di Bankitalia in un’audizione alla Camera, “nei prossimi mesi un attento controllo dei conti dovrà impedire che elementi imprevisti mettano a rischio questo risultato così importante”. Ma proprio questo a giudicare dagli ultimi episodi di malapolitica venuti alla luce è il punto critico che rischia di far saltare tutta l’operazione, o di scaricarne il peso unicamente sulle spalle di quegli Italiani che già ora pagano le tasse, lavorano con impegno, tengono fede agli impegni presi. Anche per questo spero che la sciagurata idea che vedo in questi giorni tornare a balenare sia a livello europeo sia nelle fila di alcuni partiti che sostengono il governo italiano, di introdurre una tassazione sulle plusvalenze di borsa (cosidetta “Tobin Tax”) sia presto accantonata. Davvero non abbiamo bisogno di un’ennesima tassa, sia pure mascherata da “opera di bene”, non fosse altro per il fatto che finirebbero col pagarla i risparmiatori che già pagano regolarmente le tasse e investono il proprio denaro in Italia.

Chi invece le tasse le ha evase e portato il proprio capitale all’estero potrebbe facilmente aggirare la norma che dunque o non produrrebbe effetti sensibili sui conti o graverebbe solo sulle spalle dei “soliti”, ottenendo l’effetto opposto a quello sperato. Abbiamo bisogno, come concordano più o meno tutti i medici al capezzale del “malato Italia”, di minore corruzione, di una classe politica e imprenditoriale meno attenta alla difesa di privilegi e rendite di posizione e più aperta al confronto con le best practices mondiali a vantaggio del “bene comune” (e pertanto anche dei propri legittimi interessi), di maggiori investimenti a favore dell’innovazione e della ricerca (e dell’incremento delle competenze in genere). Il rigore sa solo non basterà per centrare questi obiettivi, sarà necessario come ripeto ormai da mesi un cambio culturale profondo.

Siamo stati (e rimaniamo) per troppo tempo un paese dove pochi “furbi” vivono sulle spalle di milioni di “fessi”, che hanno la brutta abitudine di tollerare i primi sentendosi (a torto) a loro volta furbi e competenti. Iniziamo ad ammettere che abbiamo sbagliato troppe volte e che dobbiamo tornare a studiare, sarà l’inizio di un cambiamento che potrà ridare competitività al paese e tornare a far crescere l’economia tutta e il mercato del lavoro in particolare. Ne potranno godere i giovani (che tuttora vedono non attivi quasi la metà di coloro che sono in età lavorativa) e i vecchi (che vedranno le proprie pensioni nuovamente garantite da una più ampia base di lavoratori attivi). In caso contrario saranno ulteriori dolori per tutti e a lungo: il Fondo monetario internazionale prevede che se le cose non cambieranno la crisi potrà durare altri dieci anni. Non so voi ma io preferirei non attendere di scoprire se hanno avuto ragione.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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