Come non detto, abbiamo scherzato, anzi come ha dovuto precisare il premier italiano Matteo Renzi, “non abbiamo mai chiesto” di cambiare le regole, invocando la clausola della “circostanza eccezionale” connessa alla Brexit per ottenere il benestare in sede comunitaria all’erogazione di aiuti di stato al settore bancario italiano. Una retromarcia precipitosa inevitabile dopo che il cancelliere tedesco Angela Merkel ha ricordato che le regole non possono esser cambiate “non si possono cambiare ogni altro anno” e dunque se una o più banche fossero in difficoltà tali da rischiare la procedura di risoluzione, si dovrebbero prima “escutere” gli azionisti, poi nell’ordine gli obbligazionisti subordinati (o “junior”), quelli “senior” e infine i depositanti con giacenze superiori ai 100 mila euro per deposito.
Solo a quel punto si potrebbe ragionare di eventuali aiuti di stato, di cui in questi giorni si è identificata già la consistenza, tra i 40 e i 45 miliardi di euro, ma non la “forma tecnica”: sarebbero garanzie come le Gacs, che a distanza di mesi ancora non hanno prodotto alcun “magico” sviluppo del mercato dei crediti deteriorati? O sarebbero finanziamenti, che però dovrebbero essere garantiti a tassi “di mercato”? O ancora iniezioni di debito o di equity, magari attraverso strumenti “misti” come furono i Monti Bond, che consentirono al Monte dei Paschi di scegliere di volta in volta se pagare gli interessi sul capitale ottenuto a prestito (e comunque rimborsato) in contanti o con azioni di nuova emissione?
Oltre a non essere chiara la forma tecnica attraverso cui gli eventuali aiuti potrebbero essere erogati, non è neppure chiaro chi dovrebbe farsi carico di erogarli: direttamente il Tesoro o piuttosto la Cassa depositi e prestiti, che il governo vorrebbe trasformare in una sorta di fondo sovrano ma che finora non ha avuto molte soddisfazioni dagli investimenti effettuati, come quello in Saipem? Ammesso e non concesso che tutti questi dubbi siano risolti e che dalla Ue possa giungere quel via libera che non giunse lo scorso anno per l’ipotesi di una “bad bank sistemica” altrettanto fortemente caldeggiata dalle banche, servirebbe un simile “scudo”? I dubbi sono leciti.
Da un lato le banche italiane, che si pretendeva fossero più solide di tutte le altre (e che alcuni banchieri come Carlo Messina, numero uno di Intesa Sanpaolo, sembra ancora credere possano essere, visto che a differenza degli istituti francesi e tedeschi non detengono rischiosi derivati in bilancio ma solo “innocui”, si fa per dire, titoli di stato), hanno in bilancio oltre 360 miliardi di crediti deteriorati (Npl), più o meno marci, di cui oltre 200 miliardi rappresentati da sofferenze lorde (85 miliardi il valore delle sofferenze nette, ossia non coperte da accantonamenti al fondo rischi su crediti).
Dall’altro gli stessi aggregati “a rischio” (Npl e sofferenze) continuano a crescere, se non altro perché occorre del tempo prima che un credito venga classificato come scaduto (fino 180 giorni di ritardato pagamento, oltre tale termine trasformandosi in “past due”), incaglio (situazione di perdurante difficoltà del cliente e non solo della singola linea di credito) e infine sofferenza (che non scatta automaticamente a causa di un ritardo nei pagamenti né viene influenzata dalla presenza o meno di garanzie, ma dipende da una valutazione sulla persistente instabilità patrimoniale e finanziaria del cliente).
Dunque bruciare, letteralmente, 40 o più miliardi oggi non solo non azzererebbe il problema della sofferenze nette, tanto meno di tutti i crediti deteriorati, ma rischierebbe di essere vanificato se il ciclo economico dovesse effettivamente tornare a deteriorarsi in conseguenza della Brexit. Gli investitori ne sono da tempo consapevoli, basti vedere le performance dei principali titoli bancari italiani negli ultimi 12 mesi: Intesa Sanpaolo cede il 50%, Bper il 57%, Bpm sfiora il -60%, Ubi Banca perde il 62%, Unicredit il 69%, Mps e Banca Carige sono entrambe attorno al -77%, Banco Popolare segna -79%, mentre solo il Credem, che oltre ad aver sempre avuto una gestione prudente si è tenuto ben distante dai vari fondi volontari “di salvataggio”, limita il calo a meno del 27%.
Come uscire allora dalla crisi? Da parte delle banche rinunciando a distribuire dividendi, a dispetto delle richieste degli azionisti, a partire dalle Fondazioni, ed avviando una profonda ristrutturazione di un modello di business, quello dell’erogazione del credito attraverso costose reti di filiali distribuite sul territorio (che da centri di profitto si sono in parte trasformati in centri di costo), che non è più al passo coi tempi. Un passaggio che non sarà indolore, a meno che le banche non riescano a dimostrarsi finalmente in grado di innovare la loro funzione di valutatrici di meriti di credito ed erogatrici di capitale alle idee di business migliori, così da tornare a veder crescere una redditività da anni in fase calante.
Governo e autorità di settore farebbero bene a spingere per una maggiore trasparenza, per un sempre più netto distacco del credito dalla politica, per offrire semmai aiuto alle imprese così da ridurre il rischio che i crediti loro erogati oggi possano trasformarsi domani in nuove sofferenze. Non sarà comunque facile, perché molto dipenderà anche dall’andamento del quadro macroeconomico internazionale. Il governo ha perso due anni a varare provvedimenti nel complesso non utili a risolvere la crisi, perché focalizzati o sul lato sbagliato (quello dell’offerta, quando si stava affrontando una crisi da domanda) o su un timing sbagliato (si è cercato di stimolare i consumi a suon di bonus anziché ridurre strutturalmente il cuneo fiscale sul lavoro e il total tax expenditure delle aziende, da cui dipende l’incentivo a investire). Se vuole ora fare la sua parte per risolvere il problema del credito, provi a fare le mosse giuste nel giusto ordine, lasciando perdere scudi e scudetti vari.