video suggerito
video suggerito
Opinioni

Da Unicredit a Generali aumentano le pressioni pro cambiamento

Da Unicredit a Generali, i grandi gruppi finanziari italiani vedono aumentare le pressioni da parte di analisti e soci (anche esteri) a favore di un ulteriore cambiamento. Il vecchio modo di fare banca e fare assicurazione non basta più…
A cura di Luca Spoldi
64 CONDIVISIONI

Immagine

Occhi puntati sul settore finanziario italiano, non solo perché banche come Mps e Banca Carige hanno lanciato (lunedì scorso l’istituto senese) o stanno per lanciare (probabilmente l’8 di giugno l’istituto ligure) corposi aumenti di capitale, rispettivamente da 3 miliardi e da 850 milioni di euro, con sconti superiori al 30% ed effetti diluitivi attorno al 90% per chi decidesse di non parteciparvi, ma anche perché il “risiko” del settore popolare sembra alle porte, con molti che a Piazza Affari attendono la nomina degli advisor da parte di Bpm, Bper e Banco Popolare (mentre Ubi Banca sembrerebbe voler attendere ancora qualche tempo) per capire con maggiore precisione che aria tira realmente.

Del resto Mario Draghi, numero uno della Bce ed ex governatore di Banca d’Italia (oltre che, ancor prima, direttore generale del Tesoro, come dire l’uomo che conosce i bilanci delle banche tricolori come le sue tasche) è stato chiaro: visti i problemi “strutturali” neppure le ricapitalizzazioni possono bastare a istituti come lo stesso Mps, che dovrà verosimilmente rassegnarsi ad andare a nozze con qualche altro nome italiano (Ubi Banca, magari dopo una liason con Banco Popolare?) o straniero (Bnp Paribas potrebbe muovere la controllata italiana, Bnp Paribas, mentre il Banco Santander sembra meno interessato così come le banche inglesi o tedesche).

Ma quella che sta vivendo il settore finanziario italiano non è solo una storia di risiko e di aumenti (o future cessioni o accorpamenti di rami d’impresa, come nel caso del risparmio gestito), bensì anche di riorganizzazione di processo, oltre che di servizi e prodotti. Le banche supermercato, tutte uguali l’una alle altre, hanno fatto il loro tempo in Europa, non solo in Italia, tanto che già mesi addietro l’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè suggeriva: su 6 mila istituti bancari finiti sotto il controllo della Bce (con ampie “sacche di resistenza” a livello locale, visto che in Germania come in Francia o in Italia si tende a mantenere quanto più possibile il cordone ombelicale tra la politica e il credito, specie a livello di banche regionali), potrebbero tranquillamente rimanerne da qui a dieci anni solo 600, tra ristrutturazioni, acquisizioni e chiusure, e nessuno se ne accorgerebbe o quasi.

Il problema in Italia non riguarda solo l’aspetto commerciale, con offerte appiattite sia come prodotti/servizi sia come strutture dei costi e di distribuzione: riguarda anche se non principalmente la cultura del “fare banca” (e del “fare assicurazione”). Così non sarà un caso se in questi giorni tornano a circolare voci di una certa insoddisfazione che sarebbe filtrata da alcuni fondi esteri presenti nel capitale delle banche italiane, come nel caso di Unicredit, che ha tra i soci il fondo sovrano di Abu Dabi, Aabar, col 6,5% (oltre alla Libyan Foreign Bank e alla Central Bank of Libya, complessivamente appena sotto il 2,7%), anche se di questo il 4% potrebbe finire sul mercato dopo l’emissione di un bond convertibile da 2 miliardi di euro con scadenza tra il 2020 e il 2022.

Insoddisfazione che si sarebbe tradotta in un sostanziale, sia pur “vellutato”, aut-aut: o il management riesce a cambiare passo o sarà il management a dover cambiare alla prima occasione utile, anche se il Cda è stato appena rinnovato dall’assemblea dei soci lo scorso 13 maggio. Più “diplomatica” ma altrettanto deciso il commento giunto dagli analisti di Credit Suisse dopo la presentazione del piano industriale 2015-2018 da parte di Generali: la strategia delineata da Mario Greco (group Ceo del Leone di Trieste) e dal top management è “solida” ma “in linea con le attese” e non tale da far cambiare idea sul titolo, su cui gli esperti esprimono un giudizio “neutrale” ed un target price di 19,2 euro, appena limato dai precedenti 19,3 euro per azione.

Il messaggio diffuso da Generali nel corso dell’incontro con la comunità finanziaria appare certamente “solido” e punta a “spostare il gruppo verso una visione più cliente-centrica ed un modello di business di maggiore efficienza del capitale” scrivono gli analisti in un report. Tuttavia, aggiungono gli esperti, “con gli elementi chiave della storia in gran parte simili a quello che è stato presentato dalla maggior parte degli altri grandi gruppi assicurativi europei (ossia far leva sulla tecnologia, spostarsi verso strutture di capitale più leggere e mantenimento dei piani di riduzione dei costi) abbiamo visto poco nella presentazione che ci  convinca del perché Generali dovrebbe centrare tali obiettivi meglio dei suoi concorrenti”. Anche gli obiettivi in termini di cassa e dividendi sembrano destinati a portare Generali “in linea con i concorrenti piuttosto che davanti ad essi in termini di rendimento entro il 2018”.

Insomma, nonostante i cantieri aperti da tempo tanto in Unicredit quanto in Generali, far cambiare pelle ai grandi gruppi finanziari italiani appare un processo difficoltoso e lento. Immaginiamo debba esserlo ancora di più nel caso di istituti che storicamente hanno avuto maggiore difficoltà ad accettare il cambiamento, come le banche popolari, dove un maggior tasso di sindacalizzazione e una maggiore influenza politica possono rappresentare freni ulteriori che si sommano ad oggettive difficoltà legate alla qualità del credito o al momento del ciclo economico. Quanto a quest’ultimo punto, la qualità del credito, il ministro delle Finanze, Pier Carlo Padoan, è tornato a ribadire ancora una volta che si sta lavorando per una versione “leggera” della bad bank.

In soldoni lo Stato è pronto a fare la sua parte in termini di garanzie (una volta ottenuti i necessari via libera in sede comunitaria, per non far configurare tali interventi come aiuti di stato, naturalmente), ma non ha alcuna intenzione di acquisire partecipazione di capitale. Più o meno, perché ad esempio nel caso di Mps avendo deciso l’istituto di rimborsare i residui “Monti bond” integralmente, ma di pagare i relativi interessi con azioni di nuova emissione piuttosto che per cassa, a fine aumento di capitale il Tesoro si ritroverà azionista di Mps per il 4% circa, quota che ovviamente potrà in un secondo tempo essere rivenduta sul mercato sempre che ciò non comporti ulteriori perdite per le casse pubbliche.

64 CONDIVISIONI
Immagine
Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views