Ci voleva George Soros per far notare che il re è nudo, ossia che è “colpa” della Germania che non si decide se agire da egemone “benevolo” o uscire dall’euro se la crisi del debito sovrano del vecchio continente si trascina da oltre due anni. Le incertezze e le titubanze di matrice tedesca stanno nel frattempo pesando sui paesi del Sud Europa, costretti a passare sotto forche caudine di tagli alla spesa pubblica e riforme che se in astratto sono un’ottima idea (specie per paesi come l’Italia dove la concorrenza resta una teoria che riguarda sempre altri che non banche e grandi intese e dove la corruzione e il conflitto d’intereresse raggiungono livelli endemici, costituendo di fatto un’ulteriore forma di tassazione che si somma ad un prelievo fiscale mediamente già superiore al 50% dei redditi prodotti), tanto che secondo il magnate americano famoso per aver affondato nel 1992 la lira e la sterlina, meglio sarebbe (se Berlino non accettasse guidare una politica orientata alla crescita, all’unione politica e alla condivisione dei rischi, ossia del debito) pensare a una separazione consensuale tra un’Eurozona di “puri e duri” del Nord e una del Sud guidata dalla Francia, che a quel punto potrebbe svalutare e recuperare competitività per le proprie esportazioni, facendo secondo Soros meno fatica a rifinanziare il proprio debito.
Personalmente ho dei dubbi che questa seconda soluzione possa funzionare così agevolmente e con costi gestibili e ben distribuiti all’interno del corpo sociale. Preferisco di gran lunga notare che un operatore come Chris Iggo, Chief investment officer Global Fixed Income di Axa Investment Managers (dunque colui che decide come investire svariati miliardi di euro in titoli a reddito fisso, mica pizze e fichi) abbia ancora oggi ribadito come la nomina di Mario Draghi a capo della Bce abbia effettivamente portato gradualmente a “una politica monetaria più flessibile e più adatta alle condizioni economiche molto divergenti dell’area monetaria. Fattore più importante, si tratta di una politica che ha maggiori probabilità di mantenere in piedi la moneta unica” rispetto alla rigida ortodossia monetaria dei suoi predecessori e della Bundesbank (il cui numero uno, Jens Widerman, è stato infatti il solo a votare contro il nuovo programma Omt annunciato giovedì da Draghi e finora molto apprezzato dai mercati).
Ma lasciamo queste storie di “alta finanza” ai “grandi media italiani” che debbono riempire paginoni nel tentativo di orientare l’opinione pubblica in vista delle future elezioni politiche italiane della prossima primavera: voglio raccontarvi una piccola storia che riflette gli errori compiuti (e che ancora si compiono) in Italia, ma non solo, nella gestione dell’attività di settori anche di nicchia come l’oreficeria. Un settore dove l’Italia fino a poco tempo fa vantava primati indubbi, ma che ha visto nel tempo crescere la presenza di operatori stranieri nel territorio nazionale e alcune acquisizioni che hanno fatto ricchi gli azionisti di controllo di marchi importanti (uno su tutti Bulgari, conquistato da Lvmh) ma stanno impoverendo il tessuto produttivo tricolore. Tra i poli dell’oreficeria italiana ve n’è uno, Valenza Po (in provincia di Alessandria) che conosco molto bene.
Per anni le aziende orafe della città (una miriade di piccole dimensioni accanto ad alcuni grandi nomi come Damiani, quotatosi in borsa anni fa) hanno proficuamente sfruttato la sinergia col locale istituto statale d’arte “Benvenuto Cellini”, che da sempre sforna diplomati specializzati nell’arte dei metalli e delle pietre dure oltre che nelle analisi gemmologiche. Bene, anzi male: qualche anno fa, ossessionati dall’erosione dei margini causata dall’apertura alla concorrenza estera i (poco) previdenti piccoli imprenditori locali iniziarono a non assumere più i propri diplomati, preferendo chiamare giovani da altre parti d’Italia (in particolare dal Sud), non specializzati, per poterli inserire in azienda con qualifiche meno onerose (tipicamente con contratti d’apprendistato). Negli anni più recenti a questa manodopera ricca di speranze ma povera di specializzazione si è sostituita da un lato una più intensa automazione delle fasi di produzione dei gioielli valenzani, dall’altra l’utilizzo di manodopera extracomunitaria (in gran parte cinese).
Poi un bel giorno, si fa per dire, la crisi ha messo in un angolo decine di piccoli laboratori, i cui proprietari si son trovati costretti tra pagamenti sempre più ritardati, credito sempre più costoso quando non del tutto assente, a cedere le proprie aziende a quegli stessi dipendenti cinesi che avevano pensato potessero essere la loro ancora di salvezza sul lato dei costi. Risultato: molte aziende sono ora in mano alla comunità cinese, molti artigiani valenzani sono stati costretti a cambiare lavoro (o a farlo in nero o come contoterzista per i loro ex dipendenti), il livello di qualità della produzione è nel complesso calato e la crisi si è fatta ancora più forte. L’ennesimo esempio di come la non comprensione dei meccanismi della globalizzazione economica e soprattutto l’incapacità di gestirla a livello locale e nazionale abbia portato se non a una distruzione di certo a una ulteriore maggiore concentrazione della ricchezza. Cui prodest? Me lo domando sempre più spesso tanto più che nella situazione di Valenza sono ormai decine di distretti produttivi italiani, di cui i "grandi media" parlano sempre meno, forse per non disturbare il sonno degli elettori italiani.