Mentre gli italiani fanno finta di credere che votando l’uno o l’altro dei vari leader politici nazionali possa cambiare qualcosa in uno scenario economico che resta a dir poco precario e assolutamente legato a scelte che vengono compiute altrove in sede sovranazionale, a Bruxelles va in onda l’ennesimo psicodramma attorno alla crisi greca e ai suoi possibili esisti alternativi. Di soluzioni non è il caso di parlare, perché l’unica soluzione potrebbe essere quella di una ripresa a livello continentale che consenta alla ormai dissestata economia greca di tornare a respirare e riaggiustare i rapporti debito/Pil grazie alla crescita del denominatore e non, vanamente, a inseguire una crescita del numeratore a colpi di austerità fiscale che sta letteralmente distruggendo quel poco di valore che ancore resta ad Atene e dintorni.
Quali sono gli esiti che si confrontano? Esclusa l’ipotesi di un nuovo “haircut” sul debito greco con parallelo buyback dello stesso da parte del Tesoro di Atene che era sembrata tentare la Germania sino a qualche giorno fa (se non altro perché si rischierebbe di disancorare totalmente la previsione di aiuti da parte della Bce a paesi in crisi solo in relazione, tra l’altro, al contenimento dell’inflazione, che una monetizzazione del debito finirebbe col far risalire velocemente, ottenendo l’effetto opposto a quello desiderato), si starebbe ragionando su un mix di misure che potrebbe includere la rinuncia da parte della Bce ai profitti sui titoli greci (circa 9 miliardi tra plusvalenze e interessi) o l’applicazione di uno sconto sui tassi applicati ai prestiti concessi ad Atene. Quest’ultima ipotesi stride contro la necessità di evitare che paesi come Spagna e Italia che ancora si indebitano a tassi elevati sui mercati ma non godono di aiuti Bce (ed anzi cercano di evitarli come il fuoco, visto le clausole cui finirebbero col dover sottostare in cambio) finiscano col doversi indebitare ancora di più per partecipare all’ennesimo salvataggio (si parla di un ulteriore prestito da 14 miliardi di euro in parallelo a un taglio di circa 90 punti base dei costi di finanziamento per Atene).
Sarebbe questo mix di misure una soluzione alla crisi? Neppure per sogno: secondo Jp Morgan al più si otterrebbe di riportare il rapporto debito/Pil al 130,6% entro il 2020 (e non entro il 120% come finora richiesto da Ue, Fmi e Bce in contropartita degli aiuti erogati), anziché farlo salire, come rischia di avvenire se nulla venisse modificato rispetto alla situazione attuale, al 148%. Insomma: il debito greco è insostenibile. Bella scoperta, diranno i più attenti, Atene è fallita nel marzo di quest’anno e nascondersi dietro le parole dichiarando che il default è stato “selettivo” o “tecnico” non cambia la sostanza, come non può cambiare la realtà fingere che Atene possa conseguire indefinitamente un avanzo primario pari al 4,5% a fronte di una crescita nominale media del 4% negli anni a venire. Fate attenzione: si parla di crescita nominale, non reale e la differenza non è di poco conto.
Un indizio che proprio agire sulla leva della crescita nominale favorendo un aumento dell’inflazione nei paesi del Nord Europa a fronte di una deflazione (a partire dai salari) nel Sud Europa continui a tentare la Germania può essere colto anche nell’indiscrezione che ha preso a circolare sulla stampa tedesca dell’intenzione del governo tedesco di aumentare nei prossimi quattro anni l’importo delle pensioni dell’11% (una manovra di cui beneficerebbero 20 milioni di titolari di pensione), misura che potrebbe essere approvata già mercoledì. Pensionati tedeschi più ricchi potrebbe voler dire maggiori consumi sia in Germania sia all’estero, specie per paesi come Spagna, Italia e Grecia da sempre mete turistiche dei turisti “seniores” di Berlino. Si vedrà: intanto però le prospettive a breve non sono per nulla confortanti per il vecchio continente.
Secondo gli analisti di Morgan Stanley “un rapido deterioramento dello scenario macroeconomico per i paesi core dell’Europa” induce a tagliare ulteriormente le previsioni in termini di crescita del Pil nel 2013: a livello di unione monetaria europea “prevediamo ora una contrazione media dello 0,5%” spiegano gli esperti, secondo cui la Grecia farà ancora da fanalino di coda con un crollo del 4,5% del Pil (dopo il -6,5% pronosticato per quest’anno e il -7,1% segnato l’anno scorso), con Portogallo (-2%), Spagna (-1,5%) e Italia (-1,2%) destinate a tenere compagnia ad Atene nella lista dei paesi che rimarranno maggiormente in crisi l’anno venturo. Neppure la Germania (+0,3%) né la Francia (-0,1%) o la Gran Bretagna (+0,8%) avranno molto di che gioire nel 2013, spiacevole conseguenza del fatto che è sempre più chiaro come sarà necessario attendere almeno altri dieci mesi, sino alle elezioni politiche tedesche del settembre 2013, prima che qualcuno (in Germania) trovi il coraggio di ammettere che l’attuale ricetta ultrarigorista è sbagliata e va cambiata dando più spazio a misure pro-coesione e pro-crescita, senza le quali ogni tentativo di riformare “virtuosamente” i PIIGS è destinato al fallimento.
E nel 2014, le cose andranno meglio? Dipende: per la Germania (+1,4% di crescita attesa) o paesi del Nord come Svezia (+2,3%), Danimarca, Finlandia e Austria (tutte a +1,5%) sì, per la sorprendente Irlanda (+2,4% dopo il +1,1% atteso per il 2013 e il +0,3% stimato per quest’anno) anche, per la Francia e la Spagna (+0,8% entrambe), o l’Italia (+0,5%) molto meno. E la Grecia? Continuerà a bruciare (-1% previsto), fino a quando a Berlino qualcuno non avrà deciso che ha sofferto abbastanza, o fino a che i danni anche per l’economia tedesca non saranno così evidenti da non consentire oltre la finzione moralistica che continua a tener banco al momento, senza vantaggio per alcuno se non, forse, per Angela Merkel e la coalizione che la sostiene, da tempo chiaramente già in campagna elettorale.
Per una volta rischiamo di non essere i peggiori della classe neppure dal punto di vista della inaffidabilità e scarsa visione della classe politica, ma non è assolutamente un motivo per essere contenti, checché ne possano pensare i cantori della (infausta) dissoluzione dell’euro. Ma si sa che il signore acceca chi vuol perdere (e che le lobbies italiane e non continuano a pensare di poter coltivare meglio i propri interessi restando col calendario bloccato al secolo scorso), dunque non stupitevi di veder tornare questi signori all’attacco spacciando per soluzione uno scenario da incubo come la dissoluzione di quella che poteva (e può ancora, politica permettendo) essere la più importante costruzione economico-sociale del ventesimo secolo, l’Unione Europea.