Neanche il tempo di celebrare il “risultato sopra le attese” dell’economia italiana, tornata a crescere (sic) di “ben” lo 0,3% nel secondo trimestre dell’anno contro una stima iniziale di +0,2% e con una disoccupazione “caduta” al 12% a fine luglio dal 12,5% del mese precedente che quel guastafeste di Mario Draghi, ex governatore della Banca d’Italia e attuale presidente della Bce, risveglia tutti dal sogno di una poderosa crescita dell’economia italiana e del vecchio continente in genere.
L’inflazione, avverte Draghi, è nuovamente in frenata e l’economia europea nei prossimi mesi crescerà meno del previsto, perché inizierà a risentire degli effetti, nefasti, della frenata dell’Asia e della Cina in particolare. Così i prezzi a fine anno dovrebbe registrare un incremento di appena lo 0,1% (da +0,5% atteso in precedenza), per il 2016 si prevede un +1,1% (da +1,5%) e per il 2017 un +1,7% (da +1,8%).
Dati tutti ancora ben distanti dal 2% annuo che la Bce vorrebbe fosse il tasso sfiorato stabilmente dai prezzi, così da rimettere e mantenere in moto l’economia: per questo Draghi ribadisce quanto lasciato trapelare da alcuni membri del board di Eurotower, ossia che il quantitative easing (il programma di acquisto di bond sul mercato da parte della Bce) potrà andare avanti, se necessario, anche oltre la scadenza iniziale di settembre 2016, al contempo superando i previsti 1,1 triliardi di euro di acquisti complessivi.
Che il vento stesse cambiando rapidamente era già chiaro da qualche giorno, a chiunque avesse seguito l’andamento sempre più incerto dei mercati finanziari mondiali, ma è stata poi il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, a “bruciare” Draghi dichiarando, già ieri, che dopo un primo semestre 2015 all’insegna di una ripresa sia pure “moderata” e in rallentamento rispetto ai sei mesi precedenti (allegria!), il semestre da poco partito presenta ulteriori rischi al ribasso, a causa “di un contesto di crescente volatilità dei mercati finanziari, flessione dei prezzi delle materie prime, indebolimento dei flussi di capitale in entrata e deprezzamento delle valute dei mercati emergenti, i rischi per le prospettive sono saliti, soprattutto per i mercati emergenti e le economie in via di sviluppo”.
Così il fatto che nel primo semestre la Spagna, l’Irlanda e la stessa Italia siano cresciute leggermente più del previsto e che anche grazie alla debolezza del prezzo del petrolio (che sta mettendo sempre più in crisi paesi produttori come la Russia e quelle aziende che in Europa avevano maggiormente puntato le loro carte su di essa) e all’indebolimento dell’euro, e che il Fondo monetario internazionale preveda ufficialmente che la ripresa sia destinata a proseguire e forse anche ad accelerare “in Germania, Francia, Italia e, soprattutto, in Spagna” non consente ancora di brindare. Perché in concreto da festeggiare, per l’Italia in primis, c’è davvero poco.
Se si esce dalla logica perversa del “poteva andare peggio, dunque è andata bene” e si fa un semplice confronto con i nostri partner (e concorrenti) europei il quadro resta sconfortante: sul fronte occupazionale, a fine luglio il tasso medio in Eurozona era pari al 10,9%, sui minimi del triennio, con i paesi del Sud Europa che continuano a pagare un prezzo altissimo (la Grecia, peraltro con dati a fine maggio, segnala una disoccupazione del 25%, la Spagna del 22,2%) rispetto alla Germania (4,7%), all’Inghilterra (che fuori dall’euro vede una disoccupazione stabile sul 5,6%) o alla Francia che con un 10,4% ha già un tasso di disoccupazione a due cifre ma resta sotto la media della Ue-19.
Se poi guardiamo alla disoccupazione giovanile occorre solo chiudere gli occhi per non vedere la realtà: in Italia a fine luglio il 40,5% dei giovani in cerca di lavoro ne rimaneva privo, il 2,5% in meno rispetto a fine giugno certo ma su valori francamente indegni di un paese civile e con un tasso di inattività del 35,9% che non vuol saperne di ridursi (anzi è tornato a salire rispetto al 35,6% di fine giugno). Qualcuno potrebbe dire: con le nuove tecnologie che sottraggono lavoro e dopo una recessione così lunga è inevitabile che l’occupazione salga lentamente, dovendosi in Italia per di più “riassorbire” i cassaintegrati.
Può essere, ma a parte il fatto che innovazione e nuove tecnologie (nelle quali l'Italia è spesso in ritardo) come ha ricordato un’analisi di Deloitte del dicembre dello scorso anno, crea più posti di lavoro di quanti ne distrugga (e dunque il problema è come governare in modo proficuo il cambiamento, non certo ritardarlo o opporvisi), il problema è che anche la crescita “nuda e cruda” del Pil se la si guarda nelle sue componenti è in verità alquanto sbilanciata e non consente facili ottimismi.
A crescere è stata la spesa per consumi (+0,3% dopo il -0,1% del primo trimestre) e questo, dato che la crisi economica italiana è una crisi da domanda interna, è un segnale certamente positivo che però rischia di essere volatile se dovesse nuovamente mutare in senso negativo la percezione che le famiglie italiane hanno del loro futuro. In verità il dato è anche una conseguenza involontaria, stavolta positiva, della deflazione.
Pur aumentando i consumi le famiglie hanno mantenuto invariato il tasso di risparmio, perché hanno potuto comprare leggermente di più grazie a prezzi leggermente inferiori. In questo senso le previsioni di Mario Draghi offrono una speranza per l’andamento a breve termine della nostra economia. C’è però un “ma” grande come un portone: ma mentre dalla spesa pubblica (consumi della pubblica amministrazione) arriva un contributo nullo, gli investimenti delle aziende (investimenti fissi lordi) sono nuovamente in lieve calo (-0,1% nel secondo trimestre dopo il +0,2% del trimestre precedente).
La domanda estera, inoltre, sottrae crescita per il secondo trimestre consecutivo, ovvero abbiamo importato più di quanto abbiamo esportato (nonostante l’euro debole dovesse in teoria giocare a favore delle nostre imprese). A sostenere il grosso della crescita sono alla fine le scorte, salite dello 0,5% nei primi tre mesi dell’anno e di un altro +0,4% nei successivi tre mesi. Questo è un dato che si presta a una duplice lettura: un ottimista vi dirà che è un bene, significa che le aziende stanno percependo un incremento della domanda e producono in anticipo quanto andranno a vendere a breve.
Un pessimista vi dirà invece che il dato è negativo nella misura in cui questa “futura crescita” della domanda per qualsivoglia motivo (che so: il contraccolpo del calo della domanda cinese, che già si è notato nelle ultime statistiche statunitensi) dovesse non verificarsi, finendo col consigliare alle aziende di ridurre nuovamente la produzione per evitare un inutile accumulo di scorte il cui valore, tanto più in un’ipotesi di deflazione, rischia di ridursi col passare del tempo. Morale della storia: non siamo andati male, anzi siamo andati leggermente meglio del previsto e incrociando le dita potremmo avere ancora un trimestre nel complesso favorevole.
Detto questo, però, o la crisi cinese si risolverà e la crescita tornerà a manifestarsi in forma più consistente (e si spera equilibrata, in Europa) o vi è il rischio, almeno in Italia, dell’ennesimo “stop” dopo il modestissimo “go”. Del resto come nota Mario Seminerio, se si guarda alla sola “domanda nazionale al netto delle scorte” si scopre che l’economia italiana non sta andando sostanzialmente da nessuna parte, semmai si muove sul fondo che ha toccato dopo questi anni di recessione, visto che negli ultimi quattro trimestri tale voce ha segnato le seguenti variazioni: invariata, +0,2%, +0,1%, +0,2%. Se questa è crescita…