Il referendum costituzionale italiano necessario ad approvare, o respingere, la riforma Renzi-Boschi che prevede il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, il taglio dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione non è ancora stato fissato (si parla di una data tra il 15 novembre e il 5 dicembre) ma già sta producendo i primi effetti sui mercati finanziari italiani.
La prova provata è il rialzo con cui il titolo Poste Italiane ha festeggiato le dichiarazioni del sottosegretario allo Sviluppo Economico, Antonello Giacomelli, secondo cui il previsto collocamento di una seconda tranche pari al 29,7% del capitale, tuttora in mano al Tesoro, è di fatto rinviata all’anno prossimo proprio per evitare di dover affrontare una elevata volatilità che ci si attende negli ultimi due mesi dell’anno a causa della consultazione italiana.
Consultazione sulla quale, più direttamente, si vanno esprimendo gli analisti delle principali banche d’investimento e agenzie di rating di tutto il mondo. Il responsabile dei rating sovrani per Europa Medio Oriente di Fitch Ratings, Edward Parker, parlando a una conferenza a Londra a chi chiedeva quali conseguenze fossero prevedibili in caso di vittoria del “no” è stato chiaro: “Se ci fosse un voto “no”, lo vedremmo come uno shock negativo per l’economia e il merito di credito italiano”, che dunque sarebbe a rischio riduzione.
Qualche giorno fa era stata Goldman Sachs a notare che se vincesse il “no”, che pare al momento in testa di un paio di punti percentuali rispetto al “sì” (scarto minimo che sottintende una larga maggioranza di elettori ancora indecisi), e la riforma costituzionale venisse bocciata, come peraltro già accaduto nel 2006 sotto il governo Berlusconi, non cambierebbe molto, ma crescerebbero le pressioni per far cadere il governo Renzi. Qualunque fosse il destino del premier fiorentino secondo gli analisti di Goldman Sachs il pallino resterebbe tuttavia in mano al Pd che continuerebbe a condividere il potere coi suoi alleati centristi, mentre le probabilità di un’elezione anticipata (la scadenza naturale della legislatura è nel 2018) restano modeste.
In caso si arrivasse tuttavia a elezioni anticipate, si avrebbe verosimilmente un testa a testa tra Pd e M5s, col rischio elevato di arrivare a un Parlamento “in sospeso”, con circa un terzo dei voti al Pd, un terzo al M5s e un terzo diviso tra Forza Italia, Lega Nord, Ncd e Fratelli d’Italia. Anche in caso di vittoria del M5s, giudicato dai mercati come una forza populista, le probabilità di un referendum sulla permanenza nell’euro o nella stessa Ue, sul modello di quello inglese dello scorso 23 giugno, vengono giudicate modeste ma in crescita, anche se i sondaggi ad oggi confermano che la maggioranza degli italiani resta saldamente favorevole all’uno quanto all’altra, ma con alcune differenze tra le varie classi elettorali.
Studenti e pensionati sono i più eurofili, i lavoratori autonomi mostrano invece i segni di maggior disaffezione, anche se ben oltre il 50% resta pro-euro e pro-Ue. In ogni caso anche senza ipotizzare che si arrivi ad una Italexit, la vittoria del “no” genererebbe maggiore volatilità sia politica sia sui mercati finanziari, con un allargamento degli spread pagati dai titoli di stato italiani rispetto ad altri titoli di stato europei come i Bonos spagnoli (oltre che i Bund tedeschi).
A quel punto sarebbe necessario trovare rapidamente un’intesa quanto meno per il varo della Legge di Stabilità, così da consentire a Mario Draghi, che oggi a Trento ricevendo il premio De Gasperi è tornato a chiedere politiche unitarie da parte dei governi europei quanto meno su tematiche come “la sicurezza, la difesa e l’immigrazione”, di estendere il programma di quantitative easing che ha già consentito alla Banca d’Italia e alla Bce di comprare sul mercato oltre 16 miliardi di titoli di stato italiani, comprimendo i tassi e “comprando tempo”.
Tempo che sarebbe dovuto servire, ma l’attesa è stata finora vana, a varare riforme strutturali sia a livello europeo, per completare il quadro istituzionale dell'unione monetaria ed economica europea, sia a livello nazionale, per arrivare, ad esempio, ad una armonizzazione delle politiche fiscali e alla creazione, come suggerito più volte da Draghi, di uno schema assicurativo contro la disoccupazione che consenta di stemperare gli effetti negativi che nell'immediato l'integrazione europea comporta.
Tempo che avrebbe dovuto consentire, in Italia, di avviare la riduzione dell’Irpef finora “prevista” per il 2017, ma che il ministro dell’Economia e finanze, Pier Carlo Padoan, ha già fatto sapere sarà fatta slittare al 2018, pur continuando a promettere: “le tasse scenderanno”. Non prima di aver visto come finirà il referendum, ovviamente.