“Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo, potrebbe scatenare una nuova crisi finanziaria globale trascinandosi dietro non solo le altre banche italiane, ma anche colossi esteri come Deutsche Bank”. E ancora: “Da una parte il Governo italiano e l'Unione Europea stanno cercando un'altra soluzione per comprare tempo e rinviare il crack del nostro sistema creditizio, dall'altra continuano a praticare politiche di austerità che fanno aumentare le sofferenze bancarie strozzando famiglie e imprese. […] Più passa il tempo, più il crack sarà devastante”.
È a tinte fosche lo scenario prospettato dal Movimento 5 Stelle con un lungo post pubblicato sul blog di Beppe Grillo. Che ricalca sostanzialmente le preoccupazioni espresse dal The Economist, con un reportage meritevole della copertina, secondo cui le banche italiane sarebbero a un passo dal fallimento e la prospettiva più concreta e terribile sarebbe quella di una crisi con conseguenze peggiori addirittura della Brexit sull’intera economia del Vecchio Continente.
Seppur con toni e proiezioni diversi, anche il Governo italiano è decisamente preoccupato per la situazione. Renzi e Padoan continuano a ripetere che la necessità primaria è quella di mettere al sicuro i depositi dei risparmiatori, ma la situazione è decisamente più complessa e probabilmente non basterà nemmeno la due giorni dei ministri delle Finanze della Ue per impostare un percorso definitivo.
Cosa succede alle banche italiane
Gianni Trovati, sul Sole24Ore, scrive: “La crisi di alcuni istituti, Mps in primis, nasce dall’unione di due fattori: l’esigenza di alleggerire i bilanci dai crediti deteriorati moltiplicati dalla crisi e dai tempi lunghi di smaltimento che hanno caratterizzato il sistema Italia esplode in una fase di capitalizzazione ultra-leggera delle banche, che porta come tappa inevitabile un aumento di capitale in un momento in cui sul mercato non c’è esattamente una folla di aderenti”. Insomma, crediti deteriorati nei bilanci e deboli ricapitalizzazioni.
Ma cosa sono i crediti deteriorati e perché è così complicato porvi rimedio? Banalizzando diremmo che si tratta di quei prestiti e degli interessi relativi di cui le banche non rientreranno più in possesso. Sono il risultato tanto di “scelte discutibili” dei management delle banche (che hanno prestato senza garanzie necessarie eccetera), quanto della crisi economica, che ha determinato l’impossibilità per aziende e imprenditori di restituire i prestiti.
Stiamo parlando di una enorme quantità di denaro: secondo alcune stime, il totale dei crediti deteriorati in “possesso” delle banche italiane si aggira sui 400 miliardi di euro, cifra pari al 17% dei crediti totali e a circa la metà totale dei crediti deteriorati presenti sul mercato europeo. Questa situazione determina anche la difficoltà per le banche di erogare nuovi prestiti e pone forti problemi di stabilità degli istituti di credito, che devono mantenere costante il rapporto fra patrimonio e prestiti erogati, in un momento in cui le possibilità di aumentare il patrimonio sono fortemente condizionate dalla situazione dei mercati e da “altri fattori”.
Come si esce da questa situazione?
Per quanto riguarda la necessità di alleggerire il peso dei crediti sui bilanci, sempre il Sole spiega come le “soluzioni di mercato” siano già “tutte in campo”, senza bisogno di ulteriori autorizzazioni da parte della Ue:
La replica dello schema Atlante con la raccolta di nuovi capitali è partita, e coinvolge una platea articolata di soggetti che nel caso di Cassa depositi e prestiti si avvicinano allo Stato ma non entrano nel perimetro pubblico. Una forma di garanzia statale sui crediti in sofferenza, la «Gacs», è già stata scritta nel decreto legge 18/2016, non ha incontrato obiezioni a Bruxelles e dopo la prima richiesta da parte della Popolare di Bari sembra incontrare l’interesse di altri istituti come Carige, oltre a poter entrare in campo anche per Mps.
Il sostegno alla liquidità stabilito dal fondo, dunque, garantisce la tenuta degli istituti di credito, ma solo “temporaneamente”. Più complessa è la strada per la stabilizzazione del patrimonio delle banche, che passa per una maggiore raccolta di capitale. Sono in molti (inclusi gli analisti del The Economist e del Wall Street Journal) a ritenere che la ricapitalizzazione non possa che avvenire per mezzo di denaro pubblico. Insomma, un intervento pubblico straordinario, che pompi dai 30 ai 40 miliardi di euro nelle casse degli istituti di credito italiani. Semplice, quindi? Tutt’altro, invece. Perché in gioco vi sono regole europee, vincoli di bilancio e tante (troppe) implicazioni politiche.
Soldi pubblici, sì: ma chi paga?
La normativa comunitaria attuale, revisionata nel 2013, non impedisce agli Stati di intervenire direttamente nella ricapitalizzazione delle banche, a patto che si tratti di un sostegno cautelativo, temporaneo e proporzionato e che la carenza si capitale sia certificata dagli stress test (il prossimo sarà effettuato a fine mese). Oltre a necessitare di una autorizzazione europea (di questo discuteranno in questi giorni i ministri delle Finanze Ue), però, l’intervento pubblico deve rispettare la normativa sul bail in. In poche parole agli oneri di ristrutturazione delle banche devono contribuire anche gli investitori.
Semplificando ancora di più: in caso di intervento a sostegno delle banche possono essere chiamati a contribuire anche gli azionisti, i titolari di obbligazioni subordinate, i sottoscrittori di bond senior e finanche coloro che hanno depositi oltre i 100mila euro. Non rischia nulla, invece, chi ha investimenti e depositi fino a 100mila euro.
Questa prospettiva è giudicata pericolosa dal Governo italiano, che vede il rischio di ripercussioni fortissime dal punto di vista del consenso interno: ricordate solo come è andata nel caso del salvataggio di Banca d’Etruria, con la durissima contestazione animata da opposizioni e associazioni dei consumatori?
L’idea, dunque, è quella di “sospendere” le norme che prevedono la “condivisione dei costi”, violando appunto le procedure di bail in: una ipotesi giudicata irricevibile da alcuni Stati europei, Germania in primis.
Va anche precisato che per la stessa direttiva Brrd sarebbe anche possibile, in via del tutto eccezionale, ovvero quando la condivisione degli oneri possa generare “esiti sproporzionati” o mettere a rischio l’esistenza stessa dell’istituto, che il salvataggio sia completamente a carico del “pubblico”.
E, nel caso Monte dei Paschi, il Corsera spiega come si tratti di un problema serio:
Ci sono due fattori che potrebbero configurare questo rischio. 1) Mps è la terza banca italiana. 2) Obbligazioni subordinate per complessivi 5 miliardi sono in mano a 60 mila piccoli risparmiatori (2,1 miliardi rappresentati dal bond con taglio minimo da mille euro rifilato alla clientela per finanziare l’acquisto di Antonveneta) e a vari investitori istituzionali (circa 2 miliardi). Un mix che potrebbe scatenare il panico in caso di bail in.
Il braccio di ferro tra Italia e (parte delle) istituzioni europee è comunque molto incerto. Una mano al piano del Governo è arrivata anche dall'ABI, che ha parlato addirittura del bail in come procedura che viola la stessa Costituzione italiana, che tutela il diritto al risparmio (anche se non sono poche le critiche di senso, come quella di Mario Seminerio, qui).
E allora c’è chi prova a mediare, come racconta sempre Trovati:
Dall'Unione europea è già filtrata la possibilità di sospendere la condivisione degli oneri nel caso di obbligazioni subordinate sottoscritte da investitori retail, anche sulla base del presupposto che l'acquisto non sia avvenuto con una piena trasparenza sui rischi […] l punto cruciale della trattativa fra il governo italiano e l'Unione europea è legato alla possibilità di sospendere la condivisione dei costi anche per i casi in cui i titolari di obbligazioni subordinate siano investitori istituzionali come fondi o altri operatori professionali.
Strada comunque strettissima, dal momento che qualunque compromesso non potrà che avere ricadute sull'opinione pubblica. La sensazione è che si arrivi di nuovo a uno scenario per cui alcuni "risparmiatori / investitori" (quelli che hanno più di 100mila euro "investiti", insomma) saranno chiamati a contribuire a un salvataggio che è e resta molto complesso. E che ci aspetteranno anche settimane di lunghe polemiche e discussioni. Del resto, come notano in molti, se sono anche Abi e Governo a banalizzare la questione con demagogia e populismo, di che stupirsi?