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Opinioni

Cosa bella e mortal passa e non dura

Dopo aver abilmente previsto una fase di mercato, analisti e gestori sbagliano sovente negli anni successivi. Le borse sono dunque delle bische? No, ma l’andamento di lungo periodo diverge sovente da quello di breve.
A cura di Luca Spoldi
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Credit Suisse

In fondo lo scriveva già Francesco Petrarca (nel sonetto 248 del suo Canzoniere composto attorno alla seconda metà del 1300): “Cosa bella e mortal passa e non dura”. E’ il caso della fama che acquisiscono periodicamente gestori, analisti ed economisti quando riescono a predire correttamente un trend, salvo poi non riuscire ad azzeccare più ulteriori previsioni. Ebbene sì, la sfera di cristallo non ce l’hanno neppure “dottor Doom” Nouriel Roubini, economista famoso per aver correttamente predetto la crisi 2008-2009 (e per prevedere da allora ulteriori catastrofiche ricadute in recessione dell’economia mondiale) né David Rosemberg (ex acclamato strategist di Merrill Lynch), ormai apertamente oggetto di scherno da parte del “super trader” (ed ex gestore per gruppi come Putnam Management e Kidder, Peabody & Co.) Douglas Kass, che sul suo blog ha postato un grafico giratogli da un altro famoso trader, Barry Ritholtz, (che a sua volta ha precisato che si trattava di un grafico che sta girando da qualche giorno nelle principali sale operative americane) in base al quale sembrerebbe che tanto Rosemberg quanto Roubini, divenuti “bullish” (ossia confidenti nelle possibilità di ulteriori rialzi dei mercati) rispettivamente un anno fa e qualche giorno or sono, siano in realtà diventati due perfetti “contrarian”, ossia due esperti i cui consigli vanno seguiti alla lettera, ma all’incontrario (e quindi in questo caso la loro positività segnalerebbe il rischio di un nuovo tonfo dei mercati di borsa).

Il che in realtà, come ricordava oggi uno dei più noti blogger finanziari italiani, sembra indicare che (da sempre) l’andamento di breve termine di un mercato può divergere anche fortemente dall’andamento delle variabili macroeconomiche sottostanti e dunque dai trend prevedibili per l’economia “reale”.  Le borse sono dunque semplici “bische” in mano alla “speculazione” mondiale, come si sarebbe portati a credere (e come superficialmente tendono a dipingere i media italiani)? Niente affatto, semplicemente non è possibile il più delle volte stabilire dei legami causa-effetto là dove al più esistono delle correlazioni più o meno forti e durature tra fenomeni tra loro diversi (come l’andamento della produzione, dei consumi, dei flussi commerciali internazionali, piuttosto che l’equilibrio tra domanda e offerta di azioni o titoli obbligazionari e l’andamento dell’appetito per il rischio degli investitori).

In questi casi sarebbe bene basarsi su qualche analisi più approfondita di quelle che sono le relazioni che sembrano esistere/resistere sul medio e lungo periodo. Una dei migliori lavori che ho letto di recente è stato proposto in settimana dal Credit Suisse, che in collaborazione con la London School of Economics ha studiato l’andamento dei principali mercati finanziari mondiali dal 1900 a oggi, scoprendo un paio di cosette interessanti. Primo, che come già si era capito dallo studio effettuato nel 2009 dai professori americani Eugene Fama e Kenneth French, investire in titoli azionari (di società in grado di distribuire regolarmente dividendi, dunque in buona salute e ben gestite) genera effettivamente significativi sovra rendimenti rispetto a titoli obbligazionari. Secondo che il sovra o sotto rendimento di azioni e obbligazioni dipende dall’ambiente economico circostante e in particolare dall’andamento dell’inflazione.

Più precisamente lo studio di Credit Suisse e London School of Economics chiarisce che le azioni offrono risultati migliori delle obbligazioni quando l’inflazione si trova in un range da basso a medio ad una cifra percentuale, mentre le obbligazioni generano i risultati migliori in periodi di deflazione. E siccome, in particolare dal secondo dopoguerra alla fine del ventesimo secolo, le economie occidentali hanno vissuto un lungo periodo di inflazione più o meno accentuata, i risultati complessivi sono a deciso favore di un investimento in azioni, con un’intensità che varia a seconda del singolo paese osservato (e quindi della solidità dell’economia del paese stesso).

Per chiarirci: se aveste investito in azioni italiane a inizio del 1900 oggi vi ritrovereste con 6,5 euro per ogni euro investito, mentre se aveste optato per un investimento nei “tranquilli” titoli di stato vi sarebbero rimasti appena 0,14 euro per ogni euro così sciaguratamente investito. Se poi aveste voluto dormire “sereni” e aveste sempre e solo reinvestito i vostri averi in Bot o altri titoli obbligazionari a breve termine ebbene vi ritrovereste con ancora meno in tasca: 0,02 euro per ogni euro investito (ma forse sarebbe meglio dire sperperato). Roba che al confronto spendere tutti i vostri soldi godendovi la vita per lasciare ai propri eredi, semmai, solo la casa sembra la decisione più saggia non solo in termini finanziari.

Dall’altro capo del mondo negli Stati Uniti chi ha avuto il coraggio di investire in azioni agli inizi del Novecento si ritrova oggi mediamente con oltre 834 dollari per ogni dollaro investito e scusate se è poco; molto meno interessante, ma comunque positivo, l’investimento in bond a lunga scadenza (che avrebbero reso 9,3 dollari per ogni dollaro investito) e ancor meno quello in bond a breve termine (che avrebbero fatto guadagnare 2,8 dollari per ogni dollaro investito). Si noti che i risultati dell’analisi citata sono tutti in termini reali, ossia scontano già la differente inflazione che nel corso dei decenni si è registrata nei vari paesi (e che probabilmente è tra le cause della differenza macroscopica di rendimento tra gli investimenti italiani e statunitensi a conferma che l’inflazione è una vera e propria tassazione occulta, o se volete una tassazione sull’ignoranza finanziaria degli italiani e non solo di essi. Tenetelo a mente nei prossimi mesi/anni).

C’è altro da aggiungere o avete iniziato a capire perché per quanto sia io stesso abbastanza fiducioso della possibilità di un ulteriore recupero delle quotazioni dei titoli di stato italiani rispetto ai minimi segnati a fine 2011, sarebbe il caso che il governo e gli imprenditori italiani tornassero a spingere a tutta forza in direzione di quella crescita economica che manca ormai da 15 anni nel Belpaese? E che farebbe bene, tra molto più di pericolose ricette a base di inflazione e tagli dei salari, tanto agli imprenditori quanto ai lavoratori e agli investitori tutti (oltre che al fisco tricolore), con buona pace dei teorici della “decrescita felice”.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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