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Cos’è il Def e perché è così importante

In giornata il governo Renzi varerà il suo primo Def. Cerchiamo di capire cosa potrà contenere e perchè questo documento è così importante per la finanza pubblica e l’intera economia italiana…
A cura di Luca Spoldi
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Conto alla rovescia per il primo Def dell’era Renzi. Ma cos’è il Def, ovvero il Documento economico finanziario? E’ dal 2011 (legge 39/2011) l’erede del Dpef (Documento di programmazione economico-finanziaria, quest’ultimo nato con la legge 362/1988) e ovvero del Dfp (Documento di finanza pubblica, denominazione adottata nel 2009-2010), ossia un testo varato dal governo e sottoposto all’approvazione del Parlamento nel quale è indicata la strategia economica e di finanza pubblica nel medio termine. Proprio la legge 39/2011 oltre a modificarne la denominazione ha adeguato la tempistica e i contenuti delle procedure di programmazione, adattandole al modello di governance economica dell’Unione Europea, in particolare al cosiddetto “semestre europeo”, cosa che ha comportato l’anticipo entro la fine del primo semestre dell’anno della definizione delle strategie di bilancio dei singoli stati membri per consentire un più stretto coordinamento delle stesse grazie al coinvolgimento delle varie autorità comunitarie (la Commissione Ue, il Consiglio Ue, il Consiglio d’Europa ed il Parlamento europeo).

Cosa si può leggere all’interno del Def e quanto è importante il suo contenuto? Il Def contiene le previsioni aggiornate relative alle principali grandezze del quadro macroeconomico e al quadro di finanza pubblica a politiche invariate e a legislazione vigente, oltre a definire gli obiettivi programmatici sia macroeconomici sia di finanza pubblica e l’articolazione degli interventi che il governo ritiene necessari per correggere gli andamenti tendenziali allo scenario programmatico. Detto in altri termini, nel Def il governo indica le proprie previsioni, gli obiettivi in termini di crescita, inflazione e occupazione, nonché di deficit e debito pubblico, evidenzia gli scostamenti che si avrebbero se non si intervenisse con le consuete “manovre correttive” cui ci hanno abituato da decenni tutti i governi della Repubblica di ogni formula o colore politico e pertanto prefigura la “manovra” di turno, che spetterà poi al Parlamento approvare o modificare in tutto o in parte.

La programmazione indicata nel Def copre un triennio e i suoi obiettivi sono vincolanti per le future decisioni in materia. In particolare il saldo programmatico della pubblica amministrazione, che il Def indica per ciascuno degli anni del triennio di riferimento, è un limite preciso e invalicabile di cui devono tener conto le successive decisioni di bilancio: in sostanza dal 1988, anno di nascita del Dpef, il governo propone e il Parlamento ratifica “ex ante” un saldo di bilancio (quantitativo) cui ci si dovrà attenere nel momento in cui si formuleranno le successive azioni di finanza pubblica. Sembrerebbe una procedura a prova di errore, ma così non si è purtroppo mai dimostrata. Il punto più delicato è proprio dato dalla formulazione di stime su cui ci si basa per individuare scostamenti rispetto ad obiettivi altrettanto stimati e azioni “correttive” che non sempre dispiegano i propri effetti nei tempi e nei modi previsti, essendo influenzate da variabili esogene.

Di fatto proprio la scarsa attendibilità “ex post” delle previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica e il legame troppo debole tra la costruzione dello scenario programmatico e la predisposizione di misure di finanza pubblica concrete la cui adozione è frutto di un’operazione politica (il varo della legge di stabilità o legge finanziaria, nella cosidetta sessione di bilancio di fine anno), inevitabilmente soggetta a mediazioni e correzioni “in corso d’opera”, rischia ogni anno di rendere il Def più un “libro dei sogni” che un manuale di programmazione economico-finanziaria quale dovrebbe essere. Quest’anno poi il rischio è in qualche misura ancora più elevato: vi contribuisce da un lato la relativa inesperienza dei singoli esponenti del governo Renzi, dall’altra il clima pre-elettorale legato all’avvicinarsi delle elezioni europee che saranno seguite poi dal semestre europeo a presidenza italiana.

Sullo sfondo restano le differenze a volte anche marcate tra le previsioni del governo, della Banca d’Italia, della Bce e del Fmi; quest’ultimo oggi ha ribadito, ad esempio, di prevedere una crescita per l’Italia dello 0,6% quest’anno e dell’1,1% l’anno venturo, a fronte di una crescita dell’Eurozona (Ue-18) dell’1,2% quest’anno (contro il +1% indicato a gennaio, grazie in particolare a migliori stime sulla crescita in Spagna e più parzialmente in Francia e Germania) e dell’1,5% nel 2015. Più ancora che la previsione del Pil reale sarà poi interessante leggere la previsione di crescita del Pil “nominale”, ossia sommata alla variazione dei prezzi. Infatti con un’inflazione sempre più bassa (pari a +0,5% per l’Eurozona a febbraio, ma a +0,4% annuo per l’Italia e con la Spagna già in deflazione conclamata, avendo segnato una variazione pari a -0,2% annuo) i rischi per i paesi debitori come l’Italia (e la Spagna) aumentano.

Perché? Perché nel definire il rapporto debito/Pil, vincolante per la politica di finanza pubblica in Italia come negli altri paesi membri dell’Unione Europea (salvo eventuali “dilazioni” come quelle ottenute negli ultimi anni da Francia e Spagna e che però difficilmente verranno prolungate o concesse ad altri paesi come la stessa Italia, anche se Matteo Renzi sembra voler provare anche questa strada, comprensibilmente), si decise, in modo che ora appare quanto meno azzardata, di utilizzare il Pil nominale. La qual cosa rende più facile la vita ai paesi debitori ogni qual volta la crescita nominale del Pil è superiore al costo medio del debito, mentre gliela complica nel caso opposto.

L’Italia grazie al calo degli spread e dei rendimenti assoluti sul debito pubblico ha visto rallentare nell’ultimo anno la crescita “automatica” del debito medesimo, purtroppo meno di quanto non sia caduto il Pil anche a causa della repressione fiscale varata su pressione dell'Unione europea, a sua volta “guidata” da Berlino. Vedere ora frenare l’inflazione significa, a parità di altre condizioni, veder crescere meno in termini nominali il Pil e dunque dover incidere maggiormente sul nominatore con tagli o aumenti d’imposta (che hanno comunque entrambi effetti negativi sulla crescita a breve termine) o rassegnarsi a non veder calare affatto il debito/Pil come invece ci impone, tra l'altro, il “fiscal compact”, il cui rispetto è stato richiamato da Mario Draghi ancora pochi giorni fa nel prospettare il lancio di un possibile programma di quantitative easing da mille miliardi di euro.

Rafforzare le procedure parlamentari per la programmazione economico-finanziaria, come sollecitato negli anni da vari organismi internazionali oltre che da studi e ricerche, dovrebbe consentirebbe di non “perdere per strada” parti importanti delle correzioni di rotte e migliorare dunque la capacità “d’esecuzione” per la quale l’Italia non ha certo brillato in questi decenni. Non verrebbe tuttavia meno l’incertezza che grava su qualsiasi previsione come pure l’empasse culturale che da anni ci ha portato a “non decidere” praticamente su tutto, che si tratti di politica industriale o energetica, di lavoro o di  innovazione, di infrastrutture o di amministrazione, di apertura dei mercati o di giustizia. Su questi temi Matteo Renzi deve impegnare il suo governo e la sua maggioranza parlamentare perché agisca al di là di una logica di mero calcolo elettorale.

Il Def può essere l’occasione per iniziare a dire cosa si vuole fare e come si vuole farlo. Se non lo si farà (e purtroppo molti segnali sembrano indicare che il governo non possa, voglia o sappia mettere in cifre né gli obiettivi né le concrete misure con le quali tentare di ottenerli e preferisca la strada più incerta e fumosa di indicazioni “qualitative”) si perderà un’occasione importante per riaccendere i motori di un paese che a metà del guado non sembra in grado né di sfruttare a proprio vantaggio l’appartenenza all’area dell’euro né di concordare un’uscita dalla stessa con gli altri paesi membri, tanto meno indurli a cooperare tra loro per completare l’azione, necessaria ma insufficiente, di politica monetaria che da mesi la Bce continua ad esercitare svolgendo un’opera di supplenza alla politica i cui limiti sono sempre più evidenti al punto da essere richiamati anche oggi nell’ultimo Outlook macroeconomico del Fondo monetario internazionale.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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