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Covid 19

Coronavirus, perché il sistema produttivo non va chiuso (e bisogna riaprirlo prima possibile)

Chiudere tutto il sistema produttivo italiano e tenerlo chiuso per troppo tempo è l’anticamera del disastro della nostra economia. Ecco perché vanno riaperte nel più breve tempo possibile, mettendo in sicurezza i lavoratori e facendo test su larghissima scala. Si può evitare il disastro sanitario senza lasciare che l’economia italiana cada a pezzi.
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Il rischio della "chiusura totale" dell'attività produttiva incombe. Richiesto da molte parti esso viaggia sull’onda di terrore che attraversa il Paese e che la spettacolarizzazione della crisi epidemica alimenta, sera dopo sera, sui canali televisivi. Consapevole del rischio d’essere additato al publico ludibrio ritengo mio dovere affermare che questo non deve avvenire e che occorre trovare la strada per evitarlo. Per la semplicissima ragione che provocherebbe maggiori danni, dolori e financo malattie e morti di quelle che intende evitare. Occorre invece avere il coraggio, morale ed intellettuale, di cominciare a pensare oggi stesso a una via d’uscita da questo tunnel e a un sentiero praticabile di ritorno, se non alla normalità di inizio 2020, almeno ad una forma di semi-normalità che impedisca a questa epidemia di mettere in ginocchio il Paese per un numero indeterminato di anni.

Occorre pensare alle modalità attraverso cui una progressiva riapertura, calibrata e regolata, del sistema produttivo italiano possa diventare possibile fra due o tre settimane. L’analisi che segue, del tutto preliminare e che intendo aggiornare, si fonda su alcuni dati confermati, su altri ancora incerti ma altamente probabili e sull'adozione di politiche di misurazione e gestione dell’infezione completamente diverse dalle attuali, in un certo senso opposte.

Perché sia possibile ritornare, in uno spazio di tempo ragionevole, ad una situazione di semi-normalità è cruciale passare da uno Stato che chiude, proibisce e punisce sulla base di improvvise ed erratiche decisioni – prese a porte chiuse in risposta non a dati scientifici ma all’emozione che il report giornaliero sui decessi alimenta – ad uno stato che informa pacatamente ed esaurientemente, che supporta e aiuta le persone contagiate o vulnerabili e che utilizza le sue risorse per aiutare i cittadini che cercano di continuare a lavorare e produrre per il bene collettivo. Questa non è polemica spicciola ma un invito ad elaborare assieme una modalità di operare altra da quella adottata sino ad ora; una modalità che imiti e migliori le best practice dei paesi che, nel mondo, stanno gestendo questa crisi con risultati superiori ai nostri.

  1. Il virus ha effetti molto diversi sui differenti gruppi socio-demografici. Il dato fondamentale è che per individui sani di età inferiore ai 60 anni la rischiosità è bassa. Essa aumenta rapidamente dai 60 anni in avanti con stime di “rischiosità” (sintomaticità, ricovero, criticità e decesso) almeno 10 volte superiori. Questa differenza si accentua quando confrontiamo le donne con gli uomini.
  2. Gli occupati e le forze di lavoro in generale sono composte, nella quasi totalità, dai gruppi demografico-sanitari a minor rischio. L’evidenza disponibile mostra che – quando adeguate misure di social distancing e sanitizzazione vengono attuate – i luoghi di lavoro dove non vi sia accesso del pubblico (come le scuole o i centri commerciali) presentano un rischio di contagio di gran lunga inferiore a praticamente tutti gli altri ambiti di vita sociale.
  3. Il sistema dei trasporti, se operato nei modi tradizionali, fa eccezione a quanto appena affermato. Questo richiede una drastica riformulazione dei turni e delle modalità di utilizzo dei mezzi, della loro frequenza nell’arco del giorno, delle procedure di sanitizzazione e protezione del personale.
  4. Quest’ultimo è, rebus sic stantibus, l’ostacolo operativo più difficile da rimuovere. Le esperienze della Corea, della Germania, del Giappone e di Taiwan (fra gli altri) e, in Italia, della regione Veneto, dimostrano che è possibile testare sistematicamente e su larga scala. Questo rende possibile individuare i contagiati (inclusi gli asintomatici) ed i loro contatti recenti per isolarli efficacemente, rallentando drasticamente la diffusione del contagio.
  5. L'accesso ordinato e scaglionato ai luoghi di lavoro offrirebbe l’opportunità – attraverso la collaborazione fra privati e sanità pubblica – per organizzare un controllo massiccio e giornaliero dello stato di salute dei lavoratori e per individuare rapidamente nuovi casi di contagio. Questo è possibile solo attraverso una stretta cooperazione fra autorità sanitarie locale ed aziende, grandi o minuscole esse siano. Su questo terreno, da quanto mi è dato capire, si è fatto sino ad oggi poco o nulla mentre esso risulta cruciale per poter pianificare un ritorno alla semi-normalità.

È quindi urgentissimo che le amministrazioni pubbliche – dai comuni allo stato centrale – intraprendano le operazioni necessarie per l’avvio di un processo di riapertura a partire dalla seconda metà di aprile. Tale processo deve prevedere sia un testing massiccio – sui luoghi di lavoro, come suggerito sopra, e nel territorio, secondo le linee adottate dalla regione Veneto – sia un piano di radicale isolamento extra-ospedaliero dei contagiati e dei gruppi socio-demografici maggiormente vulnerabili. Al resto della popolazione deve venir permesso di operare "normalmente" con il monitoraggio e le cautele comportamentali che definisco, per brevità, "nippo-taiwanesi".

Ovviamente questa linea di azione non porta alla totale normalità ed ha un costo sociale che va finanziato: a questo serve il debito pubblico. Ma il costo di un piano d’azione che si basi su questi principi  – certamente incompleti, il mio vuole essere uno stimolo a pensare assieme – è molto inferiore a quello enorme che sopportiamo ora e che, seguendo le politiche adottate sino ad ora, non ha alcun sbocco credibile nei prossimi mesi.

Tutto chiaro? No! Ma o si ragiona lungo queste linee e si elabora un piano da implementare su scala nazionale o la luce alla fine del tunnel non appare a meno che non si accetti di rimanere rinchiusa a tempo indeterminato. E questo l'Italia non può permetterselo.

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Dall’autunno del 2006 sono University Distinguished Professor alla Washington University in Saint Louis . Nato a Padova, vissuto a Mestre tra i 10 ed i 27 anni, mi sono laureato in economia a Ca’ Foscari nel luglio 1982. Nel settembre del 1983 ho iniziato a frequentare il programma di PhD in economia della University of Rochester, NY. In seguito ho lavorato a University of Chicago (1986-87), UCLA (1987-90), Kellogg GSM, Northwestern University (1990-94), Carlos III de Madrid (1994-99) e University of Minnesota (1999-2006). In Spagna ho coordinato l’attività accademica di FEDEA (www.fedea.es) dal 2006 al 2012, dirigendola dal 2012 al 2014. Facevo parte del gruppo che, nel 1986-87, diede inizio al programma di economia del Santa Fe Institute con il quale ho collaborato sino alla metà degli anni ‘90. La mia ricerca accademica ha spaziato in vari campi; forse troppi ma mi annoia ripetermi. Ho studiato soprattutto la crescita ed i cicli economici, la valutazione dei titoli finanziari, i sistemi di welfare e quello pensionistico in particolare, il progresso tecnologico, il mercato del lavoro, i sistemi di proprietà intellettuale, l’evoluzione della fertilità, il commercio internazionale. In questi ultimi anni mi sto occupando di innovazione, banche e moneta, rivoluzione industriale, effetti di lungo periodo del processo di globalizzazione. Il miei due libri piu recenti sono: Against Intellectual Monopoly (con David K. Levine, Cambridge UP 2008, Laterza 2012) e Tremonti: Istruzioni per il disuso (con A.Bisin, S.Brusco, A.Moro, G. Zanella, 2010 e 2011). Sono uno dei cinque che, nel 2006, crearono il blog noiseFromAmerika, la culla intellettuale del (fallito purtroppo) movimento Fermare il Declino.
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