Il fine settimana non ha portato alcun risultato: l’incontro di Doha tra undici dei tredici paesi dell’Opec (assenti Libia e Iran) e la Russia si è concluso senza che l’intesa di massima raggiunta tra Mosca e Riad a marzo sia stata ratificata, perché l’Arabia Saudita ha preteso che tutti e 13 i membri del cartello petrolifero la sottoscrivessero o che venisse rinviata. Teheran dal canto suo oltre a non partecipare all’incontro ha ribadito pubblicamente di non aver alcuna intenzione di “auto infliggersi” nuove sanzioni dopo che da gennaio sono scadute quelle occidentali e il paese ha potuto tornare sui mercati internazionali a vendere la sua produzione petrolifera, che è destinata a risalire sino ai livelli a cui si trovava prima delle sanzioni stesse prima che l’Iran possa considerare un qualsivoglia accordo per congelare la produzione.
Si noti che il braccio di ferro è eminentemente geopolitico, perché Arabia Saudita e Iran stanno da anni disputando una lotta per la supremazia sulla regione medio orientale che non esclude il sostegno a fronti contrapposti in aree di guerra come la Siria e lo Yemen, piuttosto che la ricerca di “endorsment” politici da parte sia di Mosca (tradizionale alleata dell’Iran) sia di Washington (finora a fianco dell’Arabia Saudita), che curiosamente, o forse no, in questi ultimi mesi sembrano essere finite vittime del “fuoco amico”, visto che la crescita della produzione petrolifera iraniana contribuisce a tener bassi i prezzi del petrolio (39,7 dollari al barile a New York, dopo un minimo a 37,7 dollari, ma il recupero è legato a uno sciopero dei lavoratori del Kuwait che sta bloccando circa il 60% della produzione dell’emirato), cosa che fa male alla Russia quasi quanto la decisione dell’Arabia Saudita di avviare il braccio di ferro sulle quotazioni per spiazzare i produttori di shale oil americani ha dato fastidio agli Usa.
In tutto questo la produzione petrolifera sta diminuendo autonomamente per mezzo dei meccanismi di mercato, ossia del prolungato calo dei prezzi che rende non conveniente a una parte dei produttori continuare a estrarre greggio e venderlo sul mercato, in una situazione dove già le cisterne di tutto il mondo sono pressoché colme, compreso un numero crescente di petroliere utilizzate come serbatoi temporanei. Lo sciopero in Kuwait riduce di 500 mila barili al giorno una produzione che fino a qualche giorno fa era di circa 1,6 milioni di barili al giorno, mentre gli Usa sono calati, secondo quanto ha segnalato l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), a 8,977 milioni al giorno nella settimana terminata l’8 aprile scorso, scendendo sotto quota 9 milioni per la prima volta da 18 mesi.
Anche le previsioni a breve e medio termine parlano di un calo della produzione petrolifera Usa: sempre l’Aie ora prevede che la produzione media di quest’anno sarà di 8,6 milioni di barili al giorno dagli 8,67 milioni previsti ancora a fine marzo, mentre l’anno venturo dovrebbe calare a 8 milioni, rispetto ai 9,4 milioni di barili al giorno prodotti mediamente nel corso del 2015. Il risultato dovrebbe essere una stabilizzazione dei prezzi poco sotto i livelli attuali (l’Aie prevede per l’anno in corso un prezzo medio di 35 dollari al barile per il petrolio texano Wti e di 41 dollari al barile per il Brent del Mare del Nord, che stasera oscilla sui 43 dollari al barile), cosa di cui l’economia di paesi importatori come l’Italia dovrebbe beneficiare da un lato, perché contribuirà a mantenere bassi i prezzi dell’energia che resta uno dei principali fattori produttivi, ma anche a mantenere una generalizzata pressione al ribasso sui prezzi al consumo, ossia a favorire il permanere della deflazione in Italia e in Europa.
Per combattere la deflazione (che contribuisce a rendere i tassi reali sul debito pubblico più elevati di quanto ci si augurerebbe e in generale a rallentare gli investimenti e l’attività economica) come noto Mario Draghi, numero uno della Bce, sta da tempo agendo con sempre maggiori acquisti di bond sul mercato e riducendo a livelli sottozero i tassi ufficiali. Questa politica continua da tempo a non piacere alla Germania, perché Berlino ha un’economia fortemente dipendente dal settore bancario, in particolare dalle piccole Landesbank locali, che soffrono nel momento in cui il capitale sta diventando una commodity di valore prossimo a zero o negativo. C’è da dire che sotto questo profilo la Germania non è così dissimile dall’Italia, quindi i timori tedeschi potrebbero diventare presto o tardi anche timori italiani, eppure una cosa potrebbe fare la differenza.
Se il capitale (di cui mediamente le imprese italiane son ben più scarse dei loro concorrenti tedeschi) diventa una commodity a basso costo, le idee su come impiegarlo opportunamente, creando valore, stanno divenendo sempre più la vera risorsa scarsa. Storicamente le aziende italiane sono sempre state molto brave a innovare anche con mezzi limitati proprio facendo ricorso al capitale umano, ossia all’ingegno dei nostri tecnici e lavoratori tutti. Sarebbe il caso che il punto fosse colto e che l’Italia oltre a cercare di trovare una soluzione alla crisi del credito, favorisse una disintermediazione dello stesso che possa dare maggiori possibilità di crescere a chi ha idee piuttosto che a chi riesce a ottenere prestiti dalle banche. Potrebbe essere una “conseguenza non prevista” della crisi del settore petrolifero di grande interesse e rilevanza sociale.