Il quantitative easing della Bce è partito solo da inizio settimana e ancora debbono vedersi concreti benefici sui bilanci delle banche europee, che conferendo i titoli alle singole banche centrali nazionali o alla Bce potranno segnare cospicue plusvalenze rispetto ai prezzi ai quali i titoli stessi sono stati messi in portafoglio, plusvalenze utili per consentire quell’ulteriore “pulizia di bilancio” che le stesse autorità europee sembrano voler indurre così da veder rimosso, a colpi di nuovi accantonamenti a fondi rischi e svalutazioni di sofferenze, il problema della scarsa qualità del credito nel Sud Europa e in particolare in Italia (e Spagna) di cui ho più volte parlato. Ma a beneficiare del “bazooka” di Draghi sono già gli emittenti sovrani come il Tesoro italiano, che nelle aste odierne di titoli di stato a lungo termine (dopo quelle a breve termine di ieri) ha assistito a una nuova sostanziale riduzione dei rendimenti.
In particolare il Btp a 3 anni (scadenza 15 gennaio 2018) ha visto una domanda di quasi 4,7 miliardi a fronte di 2,5 miliardi offerti e interamente assegnati al tasso lordo annuo dello 0,15%, ben 30 punti base meno dell’asta precedente. Il titolo a 7 anni (scadenza 15 aprile 2022), offerto per 3 miliardi, è stato richiesto per oltre 4,46 miliardi ed ha segnato un tasso lordo annuo dello 0,71%, in calo di 52 punti base. Infine il nuovo Btp a 30 anni, scadenza primo settembre 2046, ha registrato oltre 2,75 miliardi di domanda a fronte di 1,75 miliardi offerti e interamente assegnati, con un tasso lordo annuo dell’1,86%. Siccome la vita media ponderata dei titoli di stato italiani a fine 2014 era di 76,62 mesi (pari a poco più di 6 anni), il quantitative easing della Bce dovrebbe durare all’incirca altrettanto per far sì che lo “sconto” sugli interessi che lo stato italiano paga sul proprio debito si riverberasse completamente, facendo calare il tasso medio (attualmente attorno al 3,7%, valore che essendo il debito pari al 132,1% del Pil equivale a poco meno del 4,9% del Pil stesso) a livello dei tassi tendenziali, a fine febbraio poco sopra l’1,5% se si prende come parametro il Rendistato calcolato dalla Banca d’Italia.
Campa cavallo: il rischio che anziché una ripresa “vigorosa” (si fa per dire) l’Italia resti in una fase di stagnazione prolungata a causa dell’idrovora rappresentata dalla spesa per interessi sui debiti pregressi (e della tentazione di rinunciare a ogni forma di spending review per sostenere “a debito” la ripresa medesima) è elevato. Ma in Banca d’Italia sembrano essere ottimisti e in un approfondimento diffuso anche in rete spiegano perché. In sintesi, gli acquisti di titoli pubblici e privati (da qui al settembre 2016 per quanto riguarda i titoli italiani saranno effettuati acquisti per 130 miliardi di euro da parte di Banca d’Italia e per 20 miliardi di euro da parte della Bce, ma Via Nazionale potrà acquistare anche ulteriori 40 miliardi di Abs, ossia crediti cartolarizzati emessi da banche e società finanziarie) dovrebbero consentire al Pil di crescere di un punto percentuale in più di quanto non farebbe in assenza di tale stimolo. Ma come dovrebbero fare i soldi dati alle banche a finire all’economia reale?
Sono sempre le autorità monetaria italiane a spiegarlo: gli acquisti di bond influenzeranno “l’attività economica e l’inflazione (l’obiettivo è come noto di riportarla vicino al 2% annuo, ndr) attraverso diversi canali”. Da un lato infatti l’incremento della liquidità e il calo dei tassi, già evidenti, contribuiscono “a innalzare l’inflazione” evitando “il radicarsi di aspettative di deflazione” e fornendo “ulteriore stimolo all’attività economica”. Dall’altro “gli investitori (ossia le banche, ndr) utilizzeranno la liquidità aggiuntiva per riequilibrare il loro portafoglio verso altre attività finanziarie più redditizie, non direttamente interessate dagli interventi della banca centrale, trasmettendo così l’impulso monetario a un ampio ventaglio di strumenti di finanziamento del settore privato”.
Non solo: “l’incremento del valore della ricchezza delle famiglie indotto dall’aumento dei prezzi delle attività finanziarie, e in prospettiva di quelle reali, potrà riflettersi in una maggiore crescita dei consumi”; infine l’espansione del bilancio dell’eurosistema “potrà anche accrescere la fiducia del pubblico, stimolando consumi e investimenti e sostenere le aspettative di inflazione”. Per il momento come si vede sono auspici e buone intenzioni, più che certezze. Anche perché in questo tipo di analisi sembra essere dato per scontato un mondo sostanzialmente immobile, che non si adegua agli stimoli ma si limita a reagire agli stessi.
In sostanz ail mondo potrebbbe non accettare di sostenere per anni la ripresa europea con una rivalutazione costante delle principali valute contro euro (che dai livelli della scorsa estate è calato di quasi il 35% contro dollaro) e che anzi scoppi una vera e propria guerra valutaria di cui già qualche sintomo si nota, non fosse altro per il fatto che non è solo l’Europa a portare avanti questa strategia, ma anche il Giappone che Shinzo Abe sta cercando di far ripartire a colpi di promesse di riforme e politiche monetarie ultra accomodanti da parte della Bank of Japan.
Così non sarà un caso che con gli ultimi annunci dati “a sorpresa” stamane da Corea del Nord e Tailandia (entrambi i paesi hanno tagliato i tassi ufficiali al minimo storico dell’1,75%), sono ormai 24 le banche centrali mondiali che da inizio anno hanno ridotto i propri tassi ufficiali per cercare di contrastare la forza eccessiva delle proprie valute. Prima di Corea e Tailandia erano state l’India (il 3 marzo, sforbiciando i tassi dall’8% al 7,75%) e la Polonia (il 4 marzo, riducendoli dal 2% all’1,5%) a far capire che la corda non poteva tendersi ulteriormente. Tutto questo senza pensare poi che perchè la ripresa sia sostenibile merci e servizi europei devono trovare una domanda di mercato che difficilmente sarà domestica ancora per molti anni. A buon intenditor poche parole.