Alzi la mano chi ha capito perché quando viene lanciato un aumento di capitale il titolo coinvolto finisce sulle montagne russe in borsa, specialmente nel caso di operazioni “diluitive” come molte di quelle lanciata in questi mesi dalle principali banche italiane. Facciamo un passo indietro: le banche italiane stanno messe male, come del resto tutta l’economia tricolore. Hanno due problemi: i forzieri sono pieni di crediti che difficilmente torneranno indietro, spesso prestati in periodi in cui l’economia cresceva ad “amici e parenti” con una qualche disinvoltura eccessiva. Niente di illegale (quasi sempre), ma certo una manchevolezza che in momenti di dura crisi come quella che da anni attraversa l’Italia (e buona parte dell’Europa, Germania a parte) rende ancora più problematico continuare a erogare credito che, d’altra parte, viene richiesto meno di un tempo perché molte imprese stanno fallendo e ad imprese che falliscono le banche i soldi non li prestano certo né li dovrebbero prestare, salvo vi siano piani ben precisi e credibili per evitare il fallimento dell’azienda, o a perdere soldi sarebbero sia gli azionisti e creditori dell’impresa sia quelli della banca.
Di quante “sofferenze” stiamo parlando? Di 166,4 miliardi lordi (ossia senza tener conto dei fondi già accantonati per far fronte a eventuali perdite su credito) a fine aprile, in ulteriore crescita dai 164,6 miliardi di fine marzo. E visto che la crisi prosegue, nonostante le belle speranze dei governi italiani (ed europei, Germania esclusa) e qualche timido segnale poco più che statistico (che fa sperare gli analisti delle banche d’affari ma cambia poco o punto la situazione per la maggior parte degli imprenditori), e che con essa prosegue la “stretta sul credito”, le sofferenze continueranno a crescere ancora per qualche mese prima di stabilizzarsi e, si spera, di iniziare a scendere così da dare spazio di manovra alle banche, che peraltro debbono affrontare il secondo problema, quello di dove impiegare i propri capitali. Finora li hanno messi in titoli di stato, un po’ per sfruttare la differenza tra tassi passivi (per chiedere il denaro) prossimi a zero e tassi attivi (per prestarlo sottoscrivendo titoli) che data l’inflazione sempre più modesta continuano ad essere positivi in termini reali, a differenza che in Germania.
La cosa ha fatto gioco a paesi stra-indebitati come l’Italia e ha consentito, insieme alle misure straordinarie messe in campo dalla Bce, di veder scendere lo spread contro i titoli tedeschi (Bund) e il rendimento pagato sulle nuove emissioni del Tesoro italiano. Ora però il gioco (tecnicamente il “carry trade”) non vale quasi più la candela e qualche banca e molti intermediari finanziari specializzati come fondi di private equity e di venture capital (o assicurazioni) cercano di trovare impieghi più redditizi, ad esempio sottoscrivendo titoli di credito cartolarizzati (al tempo stesso, peraltro, alcune banche si liberano tramite questo tipo di emissioni dei propri crediti problematici). Per superare l’empasse e tornare a una situazione “normale” servono però denari, tanti denari: quasi 10 miliardi di euro di nuovi capitali solo per quanto riguarda le richieste provenienti dalle principali banche italiane (15 delle quali sono sottoposte all’Asset quality review e agli stress test della Bce, i cui risultati saranno resi noti dopo l’estate).
Le pesanti svalutazioni sui crediti, l’abbattimento di valori d’avviamento ormai incompatibili con lo scenario macroeconomico attuale e prospettico, il tonfo del listino azionario italiano hanno fatto sì che per cercare di ottenere i soldi necessari tutti o quasi gli istituti proponessero aumenti di capitale con forti “sconti” rispetto al prezzo di borsa così da evitare il rischio di insuccesso, aumenti che in molti casi (Mps e Banca Carige in testa) hanno un pesante effetto diluitivo per quei soci che non volessero partecipare all’aumento. A complicare il tutto le banche italiane sono in quasi tutti i casi ancora legate a filo doppio alle rispettive Fondazioni, così tanto a Siena quanto a Genova gli enti hanno proceduto a robuste vendite dei titoli prima dell’avio della ricapitalizzazione. Morale: le quotazioni sono finite sull’ottovolante, con gli operatori impegnati a cercare da una parte di limitare i danni, sostenendo quando possibile le quotazioni di titoli e diritti, dall’altra a cercare di sfruttare gli spazi esistenti per gli arbitraggi (operazione con cui contemporaneamente si comprano titoli e vendono diritti, o viceversa, per sfruttare i disallineamenti di prezzo tra il valore a cui si possono sottoscrivere i nuovi titoli e le quotazioni correnti di borsa).
Così Mps che ha in programma un aumento di capitale da 5 miliardi di euro diluitivo al 97% ha visto il titolo registrare variazioni positive o negative fino al 20% al giorno fino alla scorsa settimana, quando con venerdì si è chiuso il periodo in cui era possibile scambiare i diritti in borsa (diritti che valevano molto più del titolo stesso: a inizio operazione il titolo valeva 1,54 euro, i diritti 23,10 euro), che hanno chiuso a 20,87 euro l’uno. Questa settimana, fino a venerdì, gli investitori vedono il titolo oscillare violentemente in borsa, non sapendo in che misura vengono esercitati i diritti (per Mps cambia relativamente poco visto che anche il suo aumento, come tutti gli altri, è assistito da un robusto consorzio di banche che hanno garantito la sottoscrizione dell’intero inoptato che dovesse risultare a fine operazione). Da oggi, poi, dato che mancano meno di tre giorni (in borsa chi vende o acquista titoli li deve consegnare o se li vede consegnare tre giorni dopo la conclusione della transazione), chi vuole fare arbitraggi non deve neppure ricorrere più al prestito titoli, costoso e difficile visto i volumi coinvolti.
Siccome nel caso di Siena ogni 5 azioni/diritti si avrà la possibilità di sottoscrivere (a un euro) 214 nuovi titoli, il costo complessivo a cui sarà possibile sottoscrivere le nuove azioni potrà, a seconda del prezzo a cui i diritti sono stati acquistati sul mercato, non superare gli 1,49 euro. Ogni quotazione superiore consentirà a chi ha in mano i diritti di esercitarli e contemporaneamente cedere i titoli equivalenti, così da lucrare la differenza (mentre chi mai si trovasse nella improbabile ma se fosse scomodissima posizione di dover pagare un prezzo superiore a quelli correnti di borsa dovrebbe o rinunciare all’operazione, subendo la perdita secca del valore dei diritti o sottoscrivere comunque sperando che il titolo si riprenda successivamente in borsa). Chi altri rischia? Non certo Creval, che è riuscito a portare a termine felicemente l’aumento di capitale da 400 milioni, probabilmente neppure Bper, che ha in corso un aumento da 750 milioni (nel suo caso i diritti sono partiti da un valore di 0,6725 euro l’uno a fronte di un prezzo di chiusura di venerdì dei titoli di 6,675 euro: stamane i diritti scivolano a 0,60 euro e i titoli a 6,535 euro l’uno).
Qualche preoccupazione potrebbe avercela Banca Carige: l’istituto genovese vede stamane i titoli risalire a 0,1646 euro e i diritti a 0,2259 euro. Anche in questo caso l’operazione è diluitiva e prevede la sottoscrizione di 93 nuove azioni a un prezzo unitario di 0,1 euro l’una ogni 25 diritti (che possono essere scambiati in borsa sino a venerdì 27 giugno prossimo). L’operazione è partita con un prezzo rettificato ex stacco diritto di 1,564 euro per azione e un valore dei diritti di 0,2366 euro. Se avete subito venduto i diritti e vi siete tenuti i titoli avete fatto bene e potreste ora cedere anche le azioni con profitto; se volete partecipare all’aumento al momento vi conviene farlo perché andreste a pagare 0,1604 euro ciascuna delle 93 nuove azioni (tenuto conto del costo dell’acquisto dei diritti). Se invece avete ancora in mano sia i titoli sia i diritti dovete decidere che fare, sapendo che comunque vada saranno possibili nei prossimi giorni variazioni consistenti tanto nei prezzi degli uni quanto degli altri. E che se lunedì mattina resterà ancora conveniente esercitare i diritti e vendere i titoli in borsa qualcuno inizierà a farlo.
Se poi pensate che l’economia non può ridursi a un “gioco di borsa” avete perfettamente ragione e sul lungo periodo quello che conterà sarà la capacità di fare profitti tanto per le banche quanto per le aziende a cui prestano soldi. Ma questa è un’altra storia che per il momento ha riguardato solo quelle (poche) aziende e (pochissime) banche che sono state in grado di affrontare con successo la sfida dei mercati esteri.