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Opinioni

Che Italia vogliamo ricostruire?

Una crisi può essere anche un’opportunità per un individuo, un’azienda o un paese. A patto che si decida cosa vogliamo diventare e si studino per tempo le soluzioni più idonee per riuscirvi. Altrimenti…
A cura di Luca Spoldi
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Richard Ginori-una delle aziende ex fiore all'occhiello d'Italia ormai fallita

Permettetemi una digressione culturale, che potrebbe non piacere a molti italiani, popolo (e relativi giornali) che sembra essere composto da una consistente quota di stolti e ciucci saputi i quali dopo un ventennio perso dietro un pifferaio magico bravissimo a coniare slogan e a “regalare sogni” allo scopo di tutelare i propri personalissimi interessi illudendo molti di stare tentando di tutelare anche i loro, ora impazziscono per un altro pifferaio che scaglia fulmini contro i politici (tutti corrotti e incapaci, no?) e ne vuole tagliare i costi per decine o anche centinaia di milioni di euro l’anno, iniziativa moralmente ineccepibile ed anzi doverosa, che però non risolve neanche per una virgola i problemi di un paese che da decenni convive con un “nero” arrivato ormai a pesare circa 150-180 miliardi di euro l’anno, con una malavita che si stima “fatturi” poco meno, sui 130-140 miliardi. Soldi (mica “quisquilie, bazzecole, pinzillacchere, sciocchezzuole”, come avrebbe esclamato Antonio de Curtis) cui andrebbero sommati i miliardi persi a causa della soffocante burocrazia italica.

La mia digressione culturale, in un paese che soffre di strabismo e si accalora in discussioni che riguardano problemi legati a 100 milioni teorici e non ai 300 o più miliardi certi, è la seguente: che paese vogliamo ricostruire dalle macerie di quello in cui abbiamo vissuto fino a ieri? Perché come ogni crisi anche questa, che per gli amici tedeschi è ben lungi dall’essere terminata (anche se qualche casa d’investimento come il Credit Suisse, vi ho già raccontato, dice che siamo al 65% di strada già fatta verso l’uscita dalla crisi del debito sovrano europeo dopo il bailout di Cipro), offre al tempo stesso rischi e opportunità. Vi è il rischio che meccanismi e sistemi che conoscevamo non funzionino più (non solo per qualche mese o anno ma definitivamente), ma vi è l’opportunità di trovare un nuovo e migliore modo di fare le cose. E’ questo in realtà il punto centrale che sembra sfuggire alle analisi di tutti: come vogliamo costruire il nostro futuro, perché dovrebbe essere chiaro a tutti che qualsiasi strategia, individuale, aziendale, nazionale o sovranazionale, che mirasse all’esclusiva restaurazione dei “bei tempi andati”  è destinata ad un fallimento clamoroso e costoso (in termini economici e sociali).

A livello europeo qualche cosa si sta muovendo ed è un bene: dopo Cipro si è capito, ad esempio, che è necessario accelerare (e infatti i stanno accelerando) i lavori per definire e approvare la direttiva europea sulla risoluzione e ristrutturazione delle banche ossia detto in altri termini le regole comuni su come agire in caso di fallimento di una banca, fallimento che non può più essere escluso a priori e i cui costi andranno scaricati nelle giuste proporzioni tra contribuenti (attraverso “salvataggi” di stato), azionisti privati e depositanti. La direttiva, che doveva entrare in vigore solo nel 2018, forse entrerà in vigore già dal primo gennaio 2015, dunque tra poco più di un anno e mezzo. A questo dovrà seguire un’unione bancaria, poi fiscale, infine politica dell’area dell’euro, piaccia o non piaccia, o la crisi continuerà a riproporsi periodicamente portando all’esito opposto, ossia ad una dissoluzione parziale o totale di eurolandia e dell’euro stesso.

A livello nazionale dovrebbe essere chiaro che andiamo verso una ridefinizione, ad esempio, dell’attività creditizia. Il che può aprire spazi a nuovi intermediari in grado di offrire nuovi servizi a chi ha bisogno di credito e non lo ottiene più dalle banche nelle forme consuete. Ma anche altri settori sono in crisi da tempo e potrebbero vedere nuovi attori emergere offrendo nuovi servizi e nuove modalità di fruizione degli stessi: pensate al settore automobilistico, dove sempre più spesso anziché vendervi un’auto i produttori vi propongono formule di “affitto lungo” che magari comprendono anche la copertura assicurativa della vettura, così da offrire un pacchetto completo di beni e servizi senza che dobbiate subire un esborso “a pronti” significativo (magari difficile da giustificare nello “spesometro” che entrerà in vigore da luglio) ed offrendovi un’alternativa anche al classico acquisto con finanziamento.

Ancora: nel settore dell’informazione al tramonto dei vecchi dinosauri della carta stampata e della televisione generalista si contrappone l’emergere (in Italia più lento che altrove per i rilevanti interessi che fanno capo agli oligopolisti del settore, interessi che non sempre sono di natura esclusivamente economica e dunque possono generare forti asimmetrie di prezzo) di nuovi soggetti in grado di “intermediare” l’offerta e la domanda di informazione, l’estendersi di modelli “freenium” in cui una parte dell’offerta è apparentemente gratuita (in realtà è sempre pagata vuoi dagli inserzionisti pubblicitari vuoi dagli utenti stessi, non direttamente ma con la cessione di contenuti e/o informazioni su se stessi, tanto che gruppi come Amazon o Facebook finiscono col fare la propria fortuna analizzando e vendendo i propri utenti e le loro abitudini) e un’altra parte è a pagamento (in cambio di servizi più mirati alle specifiche esigenze di una parte degli utenti stessi).

Potrei continuare quasi all’infinito o potrei, ancora meglio, suggerirvi di segnalarmi voi degli altri casi concreti (vi prego anzi di farlo) di come una crisi abbia trasformato interi settori, visto nuovi attori sostituirsi ai vecchi, nuove soluzioni rimpiazzare con successo quelle abituali. C’è un “però”, di fondo: però per sfruttare una crisi occorre avere la capacità culturale, economica e demografica di farlo. Un punto dolente quest’ultimo per l’Italia e forse per l’intero occidente. Qualche settimana fa Morgan Stanley ricordava come entro il 2030 gli over 65enni saranno cresciuti del 45% rispetto ai livelli attuali in Europa, Stati Uniti e Giappone. L’evidenza empirica suggerisce che popolazioni giovani godono di redditi disponibili crescenti (una quota dei quali verrà risparmiata), mentre popolazioni sempre più anziane, disponendo di un reddito minore tendono a sfruttare i risparmi accumulati.

Il che significa, per dirla in soldoni, non solo che i mercati finanziari apprezzano le popolazioni giovani (e infatti Cina, India, Brasile, Russia e Sud Africa continuano a raccogliere capitali da tutto il mondo) più di quelle anziane, ma che la crescita, in Occidente e in particolare in Italia, rischia di essere un mito come il Santo Graal. Dobbiamo scegliere se e come tornare a ringiovanire il nostro sistema economico, ma dobbiamo scegliere anche se e come ringiovanire la nostra società, sia demograficamente sia culturalmente, sia come stili di vita sia come capacità di sostenere la ricerca e sviluppo. Dobbiamo aprire maggiormente alla concorrenza il nostro sistema economico, ma farlo con un set di regole che eviti la “legge del più forte” che finisce col favorire solo i grandi oligopolisti, gli “incumbent” che già dominano i propri settori e rende più difficile un effettivo e vitale ricambio (di uomini, di aziende, di idee). Di tutto questo si parla poco in Italia e ancor meno si cerca di dare una soluzione pratica alla crisi e alle trasformazioni in atto nelle singole aziende, nei singoli settori, nell’intero sistema.

Col risultato che alla fine anche le nostre “eccellenze” rischiano di ridursi a pochi marchi da comprare in saldo, come capitato a Richard Ginori, un tempo glorioso nome della porcellaneria italiana, fallita lo scorso gennaio dopo una lunga crisi e che sembra sul punto di essere comprata dal gruppo francese Ppr (interessato anche a Pomellato), attraverso la sua controllata italiana Gucci. E dovrei aggiungere “speriamo”, perché di imprenditori italiani in grado di evitarne l’ingloriosa fine o dare una speranza di riscatto sia pure a una parte (si parla di 230 assunzioni rispetto ai 300 dipendenti circa rimasti fino all’ultimo in azienda) delle persone coinvolte non se n’è vista traccia. Dunque una preghiera: la smettiamo di inseguire problemi ridicoli e ci concentriamo sulla sostanza? Il paese è in crisi, ma ha anche delle opportunità da cogliere: le vogliamo cogliere o preferiamo che siano altri a farlo alle loro condizioni e in base ai loro legittimi interessi?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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