Perché Salvini non dice nulla sul salvataggio della Banca Popolare di Bari? Perché non spara a palle incatenate contro un governo che avrebbe trattato di nascosto il salvataggio della Bpb con i suoi vertici e con Bankitalia, almeno stando a quel raccontano nelle registrazioni pubblicate in esclusiva da Fanpage.it Gianvito Giannelli e Vincenzo De Bustis, rispettivamente presidente e ad del’istituto di credito barese? Perché non chiede conto di 900 milioni di denaro pubblico spesi per salvare una banca che dovrà lasciare a casa dalle ottocento alle mille persone, senza alcuna garanzia di rimborso per gli azionisti? Perché tutto questo irreale silenzio?
L’emendamento SalvaBari
Per provare a capirci qualcosa di più, dobbiamo fare qualche passo indietro. Più precisamente al 17 giugno scorso, quando nel dl crescita dell’allora governo Conte Uno trova spazio un emendamento immediatamente ribattezzato “SalvaBari”: la norma prevede infatti un importante sconto fiscale pari a un massimo di 500 milioni di euro alle imprese e alle banche del Sud che decidono di fondersi o di aggregarsi. In teoria, è una misura che riguarda tutte le banche e le imprese meridionali, ma l’intento è chiaro: “È evidente che al Sud ci sono istituti in crisi che potrebbero creare problemi qualora andassero in default o non fossero sufficientemente capitalizzati”, spiega il parlamentare – nonché tesoriere – leghista Giulio Centemero, uno dei due relatori di questo emendamento insieme al Cinque Stelle Raphael Raduzzi. Ogni riferimento alla Banca Popolare di Bari è voluto. E forse spiega più di mille parole il silenzio di queste ore.
È un caso che la Lega sia così interessata a salvare un istituto di credito meridionale, per giunta guidato dall’ingegner Vincenzo De Bustis, controverso banchiere romano protagonista del crac di Banca 121 e della sua vendita a peso d’oro a Mps, che le cronache raccontano da sempre legato a Massimo D’Alema? Come mai questo improvviso interesse per le sorti di un istituto chiacchierato come quello della famiglia Jacobini? Come mai nemmeno mezza parola contro i manager che ne hanno provocato la crisi, o contro Bankitalia che non ha vigilato?
Habemus Papa
Semplice: perché dentro quel disastro c’è anche lo zampino di persone vicine alla Lega. Il primo nome il lista è quello di Giorgio Papa, direttore generale della Popolare di Bari dal 2015 al 2018, gli anni in cui – secondo De Bustis – la banca barese è stato “un esempio di scuola di cattivo management, irresponsabile, esaltato”. Gli anni, per intenderci, in cui la banca, per recuperare dal disastro dell’acquisizione della Cassa di Risparmio di Teramo – Tercas, per gli amici – ha fatto salire a bordo del carro-soci più di 70mila persone, piazzando 800 milioni di azioni e 200 milioni di obbligazioni subordinate. Operazioni sbagliate, il crollo della redditività dell’istituto e l’aumento esponenziale dei crediti deteriorati, arrivati al 17,2% sul totale degli impieghi, hanno concorso a bruciare il 90% del valore dei titoli di Popolare di Bari, che dai massimi del 2016 a oggi sono crollati da 9,53 a 2,38 euro circa. Un miliardo e mezzo di euro andati in fumo, macerie sotto alle quali sono finiti gli azionisti, impossibilitati a vendere le loro azioni. Non essendo quotata in borsa, la Popolare di Bari, aveva e ha ancora la facoltà di aprire o chiudere le negoziazioni dei titoli quando vuole lei.
Giorgio Papa, dicevamo. Nato a Varese, classe 1956, Papa è assurto agli onori delle cronache nel 2011, quando è stato nominato direttore generale di Finlombarda, la cassaforte della Regione Lombardia, una finanziaria pubblica con un patrimonio di 211 milioni di euro e 4 miliardi di fondi gestititi. Le cronache del tempo raccontano che quella di Papa fu una nomina in quota Lega, figlia dell’abbandono del ciellino Marco Nicolai, del declino della stella di Roberto Formigoni e dell’ormai prossimo avvicendamento con Roberto Maroni. E proprio Maroni e Giancarlo Giorgetti sono i nomi che, anche solo per la medesima appartenenza geografica e politica, sono sovente associati a Papa.
Gli amici di Varese
Non ci è dato sapere come Papa, la cui carriera è sempre rimasta circoscritta tra Varese, Milano, Bergamo e Novara, finisca a dirigere la Banca Popolare di Bari. Sappiamo, però, che sotto la sua direzione, tra il 2013 e il 2016, Finlombarda finisce nel mirino di un’ispezione di Regione Lombardia, che attesta “scelte d’investimento effettuate, per volumi rilevanti”, che “non risultano adeguatamente motivate a fronte dei rischi di controparte assunti”, avvenute anche grazie alla “mancanza di regole efficaci per disciplinare l’esercizio della discrezionalità del responsabile delle scelte di investimento”. Tra queste scelte, oltre a 150 milioni di euro di obbligazioni delle due banche venete, Popolare di Vicenza e Veneto Banca, finite poi a gambe all’aria, ci sono anche numerosi titoli della Banca Popolare di Bari. Nonostante questo, Papa risulta essere molto gradito a Bankitalia, alla ricerca di qualcuno che rimedi al disastro Tercas, dopo la polemica uscita di scena di De Bustis, che quell’acquisizione proprio non l’aveva digerita.
Non ci è dato saperlo, ma sappiamo che assieme a Papa finiscono in pancia alla Popolare di Bari, investimenti e affidamenti che di barese e pugliese hanno ben poco. Come ha ricostruito Vittorio Malagutti sull’Espresso, Papa apre un importante linea di finanziamento alla Monferrini, una famiglia di costruttori con base a Varese, fallita nel 2017 con uno sbilancio nei confronti dell’istituto di circa 10 milioni di euro. O anche a Luca Parnasi, costruttore romano politicamente dalle assidue frequentazioni con Giancarlo Giorgetti anche lui beneficiato da prestiti da decine di milioni dalla Banca Popolare di Bari durante l’era Papa, nonostante un indebitamento sopra il livello di guardia che aveva fatto scattare il semaforo rosso nelle centrali rischi di altre banche con lui molto esposte, come UniCredit.
Se il decreto SalvaBari, la nomina di Papa, gli affidamenti agli amici della Lega siano solo una serie di sfortunati eventi non ci è dato saperlo. Di sicuro, sappiamo che Salvini è quello che raccontava che il Meccanismo Europeo di Stabilità avrebbe “distrutto il risparmio degli italiani”. Che ora stia zitto di fronte a chi quel risparmio l’ha distrutto davvero, è già una mezza risposta.