![Campari fabbrica](https://staticfanpage.akamaized.net/socialmediafanpage/wp-content/uploads/2012/09/Campari-fabbrica.jpg)
Udite, udite: il gruppo italiano Campari ha annunciato oggi il prossimo lancio di un’Opa in contanti da 414,75 milioni di dollari (circa 330 milioni di euro) sulla giamaicana Lascelles deMercado & Co. (LdM), terza azienda mondiale nel settore del rum con vendite per 265,4 milioni di dollari nell’anno fiscale che termina il 30 settembre, proprietaria di marchi tra cui Appleton Estate, Appleton Special/White, Wray & Nephew e Coruba. L’operazione si è resa necessaria dopo l’accordo siglato dalla stessa Campari con alcuni azionisti della Cl Financial Limited per rilevare la loro quota dell’81,4% in LdM e sarà rivolta ai possessori di tutte le azioni ordinarie e privilegiate non possedute da Campari, come prevede la normativa giamaicana. L’annuncio piace alla borsa dove il titolo chiude la giornata in rialzo dell’8% a 5,90 euro per azione, ribaltando una performance altrimenti finora abbastanza anonima sia negli ultimi sei mesi (+4,24% stasera, era negativa fino a venerdì) sia sull’ultimo anno (+2,70% oggi, in perdita di circa il 5% fino alla scorsa settimana).
Per il gruppo piemontese, che ha chiuso i primi sei mesi dell’anno con un fatturato di 618,3 milioni e un utile di 77,9 milioni di euro, l’operazione è importante, sia perché è la terza maggiore acquisizione per controvalore mai effettuata, sia perché consente di affiancare una presenza affermata nella parte alta del mercato degli spumanti, della vodka, del bourbon, del wiskey e della tequila (oltre che dei “soft drink”) con marchi quali Campari, Cinzano, Aperolo, Skyy, Glen Grant e Wild Turkey ad una presenza importante in quello del rum. Ma le aziende italiane che vanno all’estero (se ne contano non tantissime, le maggiori essendo Eni, Enel, Tenaris, Fiat, Pirelli & C., Luxottica, Autogrill, Barilla, Benetton, Prysmian, qualche gruppo delle costruzioni, qualche marchio di moda) fanno bene o fanno male all’economia italiana?
La domanda viene puntualmente riproposta ogni volta nuovi dati, oggi quelli dell’indice Pmi manifatturiero elaborato dall’istituto Markit, confermano come la produzione manifatturiera è in costante calo in Italia e non è facile dare una risposta definitiva, ma certo in un paese dove i costi sono mediamente più elevati che nel resto d’Europa, complice un fisco oppressivo, dove le prospettive di crescita sono tuttora modeste per non dire nulle, anche a causa delle politiche di ristrutturazione e riduzione della spesa pubblica per cercare di rientrare “virtuosamente” nei criteri stabiliti dal patto di stabilità europeo, in un Paese che vede i propri giovani ammuffire disoccupati o sotto occupati in impieghi “a progetto” che di progettuale hanno poco o nulla e dove il gap culturale continua a marchiare a fuoco l’intera società dipingendo un quadro in cui se non si è maschi, adulti (per non dire anziani) e abitanti non più a Sud di Roma cercare lavoro resta da decenni un’ulteriore sfida, non mi pare si possa fare altro che augurarci che molte aziende riescano a trovare il modo di crescere all’estero.
Che i benefici possano poi traslare dalla proprietà di tali imprese al paese, attraverso maggiore know how, un più facile accesso al credito, una maggiore abitudine alla concorrenza e una maggiore trasparenza sia contabile sia di governance non è naturalmente scritto nelle tavole della legge, occorrerà anzi varare politiche industriali, energetiche, fiscali e culturali coerenti con l’obiettivo di far crescere il paese anche sfruttando il patrimonio di conoscenze e competenze accumulate dai nostri “campioni” ed evitando che i benefici si limitino a tradursi in qualche villa in più alle Bermuda o in qualche robusto conto corrente cifrato in Svizzera (a proposito: non è solo la Grecia ad aver intavolato con Berna trattative per rivedere i trattati bilaterali sulla tassazione dei capitali, l’Italia ha avviato questa trattativa sin da giugno anche perché si calcola che a tale data fossero almeno 120 miliardi di euro i capitali “in nero” di origine italiane nei forzieri delle banche svizzere, parte dei quali rischia peraltro di essersi già trasferito altrove, ad esempio a Dubai).
Visto che l’auspicata ripresa è destinata a passare, comunque, da un maggior contributo delle esportazioni italiane il fatto che le nostre migliori aziende riescano a rafforzare la loro presenza sui mercati mondiali è certamente positivo e conferma che anche in una fase di crisi chi riesce a mantenere il sangue freddo (e a dotarsi dei capitali necessari) può sfruttare l’occasione per qualche “zampata vincente” ai danni di concorrenti meno solidi. Troppe volte abbiamo sentito l’opposto, di aziende italiane finite in mano a proprietari esteri, per non rallegrarci del fatto che alcune riescano a fare l’opposto, sempre sperando, come detto, che i benefici possano poi essere estesi a tutta la nazione, direttamente o indirettamente. E che l’Italia finalmente si svegli dal suo lungo torpore, magari dando meno spazio ai “vitali” problemi di settori “all’avanguardia” (scusate l’ironia, ma nel 2012 mi pare inevitabile) come l’acciaio o il carbone e raccontando più storie positive di successi anche da parte di gruppi emergenti, di giovani e di donne: da tempo vado dicendo che è possibile e auspicabile raccontare tali storie e rafforzare con una narrazione “positiva” i segnali tuttora rari e incerti della prossima ripresa, voi che ne dite?
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