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Campari si beve LdM, che cambia per l’Italia?

Campari si “beve” la giamaicana LdM per 415 milioni di dollari ed entra nel mercato del rum. Un bene per il gruppo piemontese, ma quali saranno le ricadute pratiche per l’Italia?
A cura di Luca Spoldi
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Campari fabbrica

Udite, udite: il gruppo italiano Campari ha annunciato oggi il prossimo lancio di un’Opa in contanti da 414,75 milioni di dollari (circa 330 milioni di euro) sulla giamaicana Lascelles deMercado & Co. (LdM), terza azienda mondiale nel settore del rum con vendite per 265,4 milioni di dollari nell’anno fiscale che termina il 30 settembre, proprietaria di marchi tra cui Appleton Estate, Appleton Special/White, Wray & Nephew e Coruba. L’operazione si è resa necessaria dopo l’accordo siglato dalla stessa Campari con alcuni azionisti della Cl Financial Limited per rilevare la loro quota dell’81,4% in LdM e sarà rivolta ai possessori di tutte le azioni ordinarie e privilegiate non possedute da Campari, come prevede la normativa giamaicana. L’annuncio piace alla borsa dove il titolo chiude la giornata in rialzo dell’8% a 5,90 euro per azione, ribaltando una performance altrimenti finora abbastanza anonima sia negli ultimi sei mesi (+4,24% stasera, era negativa fino a venerdì) sia sull’ultimo anno (+2,70% oggi, in perdita di circa il 5% fino alla scorsa settimana).

Per il gruppo piemontese, che ha chiuso i primi sei mesi dell’anno con un fatturato di 618,3 milioni e un utile di 77,9 milioni di euro, l’operazione è importante, sia perché è la terza maggiore acquisizione per controvalore mai effettuata, sia perché consente di affiancare una presenza affermata nella parte alta del mercato degli spumanti, della vodka, del bourbon, del wiskey e della tequila (oltre che dei “soft drink”) con marchi quali Campari, Cinzano, Aperolo, Skyy, Glen Grant e Wild Turkey ad una presenza importante in quello del rum. Ma le aziende italiane che vanno all’estero (se ne contano non tantissime, le maggiori essendo Eni, Enel, Tenaris, Fiat, Pirelli & C., Luxottica, Autogrill, Barilla, Benetton, Prysmian, qualche gruppo delle costruzioni, qualche marchio di moda) fanno bene o fanno male all’economia italiana?

La domanda viene puntualmente riproposta ogni volta nuovi dati, oggi quelli dell’indice Pmi manifatturiero elaborato dall’istituto Markit, confermano come la produzione manifatturiera è in costante calo in Italia e non è facile dare una risposta definitiva, ma certo in un paese dove i costi sono mediamente più elevati che nel resto d’Europa, complice un fisco oppressivo, dove le prospettive di crescita sono tuttora modeste per non dire nulle, anche a causa delle politiche di ristrutturazione e riduzione della spesa pubblica per cercare di rientrare “virtuosamente” nei criteri stabiliti dal patto di stabilità europeo, in un Paese che vede i propri giovani ammuffire disoccupati o sotto occupati in impieghi “a progetto” che di progettuale hanno poco o nulla e dove il gap culturale continua a marchiare a fuoco l’intera società dipingendo un quadro in cui se non si è maschi, adulti (per non dire anziani) e abitanti non più a Sud di Roma cercare lavoro resta da decenni un’ulteriore sfida, non mi pare si possa fare altro che augurarci che molte aziende riescano a trovare il modo di crescere all’estero.

Che i benefici possano poi traslare dalla proprietà di tali imprese al paese, attraverso maggiore know how, un più facile accesso al credito, una maggiore abitudine alla concorrenza e una maggiore trasparenza sia contabile sia di governance non è naturalmente scritto nelle tavole della legge, occorrerà anzi varare politiche industriali, energetiche, fiscali e culturali coerenti con l’obiettivo di far crescere il paese anche sfruttando il patrimonio di conoscenze e competenze accumulate dai nostri “campioni” ed evitando che i benefici si limitino a tradursi in qualche villa in più alle Bermuda o in qualche robusto conto corrente cifrato in Svizzera (a proposito: non è solo la Grecia ad aver intavolato con Berna trattative per rivedere i trattati bilaterali sulla tassazione dei capitali, l’Italia ha avviato questa trattativa sin da giugno anche perché si calcola che a tale data fossero almeno 120 miliardi di euro i capitali “in nero” di origine italiane nei forzieri delle banche svizzere, parte dei quali rischia peraltro di essersi già trasferito altrove, ad esempio a Dubai).

Visto che l’auspicata ripresa è destinata a passare, comunque, da un maggior contributo delle esportazioni italiane il fatto che le nostre migliori aziende riescano a rafforzare la loro presenza sui mercati mondiali è certamente positivo e conferma che anche in una fase di crisi chi riesce a mantenere il sangue freddo (e a dotarsi dei capitali necessari) può sfruttare l’occasione per qualche “zampata vincente” ai danni di concorrenti meno solidi. Troppe volte abbiamo sentito l’opposto, di aziende italiane finite in mano a proprietari esteri, per non rallegrarci del fatto che alcune riescano a fare l’opposto, sempre sperando, come detto, che i benefici possano poi essere estesi a tutta la nazione, direttamente o indirettamente. E che l’Italia finalmente si svegli dal suo lungo torpore, magari dando meno spazio ai “vitali” problemi di settori “all’avanguardia” (scusate l’ironia, ma nel 2012 mi pare inevitabile) come l’acciaio o il carbone e raccontando più storie positive di successi anche da parte di gruppi emergenti, di giovani e di donne:  da tempo vado dicendo che è possibile e auspicabile raccontare tali storie e rafforzare con una narrazione “positiva” i segnali tuttora rari e incerti della prossima ripresa, voi che ne dite?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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