Quanto possa essere sottile il ghiaccio su cui pattinano banche e imprese italiane è diventato improvvisamente chiaro a tutti in queste ultime ore. Quasi una “tempesta perfetta” che ha visto prima crollare il titolo Seat Pagine Gialle, ex “reginetta” del listino di Milano di fine secolo scorso, passata di mano in mano attraverso una serie di operazioni a debito (degli Lbo o Leveraged buyout, ossia acquisizioni fatte caricando di debiti la società che viene acquisita, in genere caratterizzata da un’elevata generazione di cassa attraverso cui si conta di rimborsare rapidamente il debito fatto per acquisirne il controllo), poi Saipem, infine perdere colpi Fiat, il tutto mentre non si arrestano le polemiche attorno alla “grana derivati” di Mps (che oggi ha lasciato sul terreno poco meno del 10% chiudendo a 24,22 centesimi di euro per azione) e ai sospetti che dietro all’acquisizione a caro prezzo di Antonveneta possano esserci stati movimenti sospetti di denaro.
Andiamo con ordine: ieri Seat è crollata del 41,5% rispetto alla vigilia, a soli 0,31 centesimi di euro per azione (ma oggi il titolo ha ceduto altri 6 punti abbondanti scendendo a 0,29 centesimi di euro a titolo), dopo che la sera prima a mercati chiusi la società aveva fatto sapere non essere in grado di staccare la cedola semestrale sul bond “senior unsecured” Seat Pagine Gialle 10,50% 2017, in pagamento a fine mese per un ammontare totale di 42,2 milioni di euro. Un annuncio che secondo alcuni operatori lascia presagire, scaduto il periodo di grazia (30 giorni) previsto dal regolamento, una successiva dichiarazione di default del gruppo (forse anche per “giocare d’anticipo” rispetto al giudizio in merito al ricorso a suo tempo presentato da alcuni soci di minoranza che si ritengono danneggiati dalle passate operazioni di leveraged buyout e fusione ed hanno chiesto al Tribunale Civile di Roma il sequestro dell’intera società).
Per questo procederà da un lato ad accertare “la compatibilità prospettica dell’indebitamento complessivo della società con la sua struttura patrimoniale”, dall’altro ad una revisione delle stime sulla cui base è stato stilato il piano industriale e qui sembra nascondersi un’altra grana, ossia un braccio di ferro tra gli azionisti attuali della società (fondi come Anchorage Capital Group col 17,6%, Monarch Alternative Capital col 5,14%, Owl Creek A.M. col 9,37% e Sotich Capital col 7,67%), i suoi creditori a partire da Royal Bank of Scotland (che ha concesso al gruppo 800 milioni di euro di finanziamenti in scadenza nel 2016) e gli eventuali nuovi investitori che potrebbero provare ad apportare nuovi mezzi al gruppo, che solo lo scorso anno aveva ristrutturato il debito (1,3 miliardi di euro) in modo molto duro, anche con la temporanea sospensione delle cedole (poi pagate) sui bond, e che ormai vale meno di 50 milioni di euro di capitalizzazione (e vede i bond trattare sotto il 40% del valor nominale).
Ma i guai “veri” dovevano ancora arrivare: sempre ieri Saipem, società controllata dall’Eni (che oggi cala del 4,71% 18,4 euro a titolo) attiva nel settore dell’esplorazione e trivellazione di nuovi giacimenti petroliferi, una delle poche autentiche “perle tecnologiche” rimaste in Italia, aveva tremato perdendo il 3,5% a 30,45 euro (1,11 euro per azione meno della chiusura precedente) sulle voci di un collocamento curato da Bank of America Merrill Lynch per conto di un “investitore istituzionale” che nelle ultime battute della seduta di lunedì sera e che avrebbe riguardato circa 10 milioni di pezzi (poco più del 2,2% del capitale). Si è parlato dei fondi Fidelity Investment (soci al 2,614%) ma stamane il portavoce della società ha smentito. Tutto a posto? Neppure per idea perché ieri sera, come un fulmine a ciel sereno, è giunta una conference call in cui i vertici di Saipem (di fresca nomina essendo stati i precedenti amministratori coinvolti in un’inchiesta su presunte tangenti in Algeria) hanno limato le previsioni per i numeri dell’anno appena concluso e tagliato più nettamente quelli di quest’anno.
Un “warning” in piena regola, coi ricavi 2012 visti pari a 13 miliardi di euro, l’Ebit a 1,5 miliardi e l’utile netto a 0,9 miliardi, contro precedenti stime ufficiali che parlavano di un Ebit di 1,6 miliardi e un utile netto di 1 miliardo. Il 2013 dovrebbe invece chiudersi con ricavi attorno ai 13,5 miliardi di euro (dunque in crescita di altro mezzo miliardo rispetto all’esercizio appena concluso), un Ebit di 750 milioni e un utile netto a 450 milioni (in questo caso i valori sarebbero invece dimezzati anno su anno), contro un consensus che indicava un Ebit a 1,6 miliardi e un utile netto di 1 miliardo. Apriti cielo: gli analisti hanno tagliato giudizi e prezzi obiettivo, il titolo è riuscito a fatica ad aprire tra volumi esplosi e prezzi crollati. A fine seduta il bilancio è da bollettino di guerra, con un ultimo prezzo a 20,01 euro per azione (il 34,3% in meno di ieri) e quasi 52 milioni di pezzi passati di mano (la media di scambi sul titolo oscillava finora a poco meno di 2 milioni di azioni al giorno).
Per non farci mancare nulla Chrysler Group Llc, controllata statunitense del gruppo Fiat, ha ridotto le sue previsioni sui free cash flow per il 2014, esercizio che Chrysler ora prevede di chiudere con un free cash flow di circa 1 miliardo di dollari, mentre nei piani originali (del 2009) di Sergio Marchionne era indicata una cifra di 3 miliardi, come sottolinea puntualmente l’agenzia Bloomberg. Bloomber nota anche come non si tratti di una frenata del mercato statunitense, visto che Chrysler prevede ora circa 80 miliardi di dollari di ricavi nel 2014, contro una stima 2009 di 67,5 miliardi dollari. Una proiezione di vendita superiore con prospettive di guadagno pressoché stabili sembrano semmai indicare margini di profitto più ristretti del previsto (attorno al 6% contro l’8% delle stime iniziali), così a Milano anche Fiat torna a perdere quota e chiude a 4,456 euro per azione, in calo del 4,83% da ieri.
Morale della favola: banche e aziende italiane grandi e piccole, della “vecchia” o “nuova” economia, sono stasera giudicate meno credibili (e pertanto più rischiose) dagli investitori di tutto il mondo di quanto non lo fossero solo 48 ore fa. E mentre la Consob indaga per capire se sia tutto regolare o qualcuno abbia voluto calcare la mano, magari approfittando di informazioni riservate (ma occorrerà del tempo per avere delle risposte perché spesso, come ad esempio nel caso del collocamento dei 10 milioni di azioni Saipem, si tratta di operazioni che sono transitate “estero su estero”), il danno “reputazionale” è immediato ed evidente e i “cavalieri bianchi” non possono che stare alla finestra, in attesa di poter intervenire con minor sforzo per ricomprare a prezzi da “stralcio” più che da “saldo” asset che fino a pochi giorni o mesi fa sembravano poggiare su solide fondamenta. Che forse tanto solide non erano, a meno che non si sia trattato non di semplici coincidenze ma di un premeditato attacco all’Italia (ma da parte di chi non è dato sapere).