La fusione tra Bpm e Banco Popolare si avvicina, coi titoli rimasti sospesi per tutta la giornata (oltre che nella seduta After Hours) a Piazza Affari, in attesa che terminino le riunioni dei board dei due istituti chiamati ad approvare un memorandum d’intesa sulla futura fusione che darà vita alla terza maggiore banca italiana dopo Unicredit e Intesa Sanpaolo. Già ieri era giunto un sostanziale via libera per bocca della responsabile della Vigilanza Bce, Danièle Nouy, che ha spiegato come Eurotower non abbia nulla in contrario, anzi, a matrimoni tra banche italiane che aderiscano a tutte le richieste dell’autorità unica di vigilanza bancaria e dunque: che rispettino le regole sulla governante (addio al voto capitario, tetto al numero di consiglieri d’amministrazione), che risultino adeguatamente patrimonializzate e che mostrino una sufficiente qualità del credito.
Nel caso in questione tutto questo potrebbe tradursi in una ricapitalizzazione da 1-1,5 miliardi di euro per la quale si farà probabilmente ricorso a un mix di strumenti tra cui l’emissione di bond convertibili e nuove dismissioni, ma non può più essere escluso un aumento di capitale che naturalmente potrebbe andare a intaccare i rapporti di concambio della fusione. Un’intesa dovrà essere raggiunta anche sui tempi per procedere a ulteriori cessioni i pacchetti di Npe (Non performing exposure, ossia esposizioni a crediti non performanti) dopo la cessione a Hoist Finance di un portafoglio per complessivi 950 milioni di euro di valor nominale di “non performing” avvenuti il primo ottobre dello scorso anno.
Ciò che sta facendo parlare gli analisti, oltre alle possibili sinergie (quelli di Citigroup calcolano che la fusione possa originare sinergie di costo per circa 315 milioni di euro) è la constatazione che secondo i risultati degli ultimi stress test europei (lo Srep, Supervisory review and evaluation process) Intesa Sanpaolo aveva un Core equity Tier 1 ratio (Cet1, un indice del capitale di migliore qualità) pari al 13,4%, mentre Unicredit superò la verifica con un Cet1 del 10,53%, Bpm dell’11,44% e Banco Popolare del 12,7%. Sulla carta né Bpm né Banco Popolare dovrebbero aver bisogno di ulteriori capitali, salvo non prevedano un ulteriore e significativo incremento delle Npe in portafoglio.
Eppure questa seconda ipotesi non sembra essere stata considerata lo scorso autunno, quando la Bce, oltre ai risultati dello Srep 2015, fissò i target da centrare per il 2016 che per Intesa Sanpaolo passò dal 9% aln 9,5%, per Unicredit dal 9,5% al 10%, per Bpm venne confermato pari al 9% e per Banco Popolare passò dal 9,4% al 9,55%. Nouy ha ricordato che la nuova banca dovrà avere coefficienti in linea con i suoi diretti concorrenti, quindi proprio con Unicredit e Intesa Sanpaolo, ma stando ai numeri dei bilanci e, indirettamente, alle indicazioni fornite dalla stessa Bce questo sembrava essere una situazione già acquisita. Perché ora tanta insistenza nel rafforzarsi ulteriormente, e a marce forzate? Forse che gli sceriffi di Mario Draghi fiutino una esposizione creditizia peggiore di quella che appare dai conti ufficiali?
Se così fosse, il rischio graverebbe su azionisti e obbligazionisti in particolare del Banco Popolare, chiamati come detto a mettere mano al portafoglio. E’ dunque auspicabile che anche sotto questo profilo si faccia la massima chiarezza possibile a partire dal memorandum d’intesa. Non si può tuttavia non evidenziare come in tema di trasparenza e tutela del risparmio in Italia di recente si siano avuti più passi indietro che in avanti. Non solo è caduto l’obbligo per le società quotate di pubblicare trimestrali, con la scusa che questi documenti possano essere “discorsivi” (ingenui noi che avevamo sempre pensato che discorsivi potessero semmai essere alcuni movimenti anomali che spesso si notano sui titoli quotati di minore capitalizzazione), non solo si è alzato dal 2% al 3% la soglia che fa scattare l’obbligo di segnalazione dell’assunzione o movimentazione di una partecipazione “rilevante”, adesso la Commissione Industria del Senato, pare su “stimolo” del governo, ha pensato bene di non prevedere l’obbligo di indicare, nella copertina dei prospetti d’offerta, il rischio di perdita totale o parziale dell’investimento.
In questo caso pare che non si sia voluto introdurlo perché qualunque strumento, “anche un titolo di stato”, potrebbe essere a rischio di perdita di capitale. Il che è poi esattamente la realtà e non è un caso limitato ai soli “Tango bond” ma anche alle obbligazioni bancarie (ricordate la vicenda delle quattro banche risolte a dicembre, vero?), a quelle corporate e a titoli di stato di paesi come la Grecia ma anche l’Italia, soprattutto secondo la visione tedesca che da tempo suggerisce di ponderarne il rischio nella valutazione della congruità del capitale di una banca o di un’assicurazione “sistemica”. Come detto è il caso si faccia chiarezza, visto che già la poco acuta decisione di eliminare gli scenari probabilistici di rendimento dalle obbligazioni bancarie non ha certo favorito una corretta allocazione del pubblico risparmio né la sua tutela. Chiaramente nessuno potrebbe volere barare su questo punto, la corretta allocazione del risparmio in base al rischio e al rendimento, vero?