Potenza delle parole: il Financial Times afferma che l’Ecofin di ieri avrebbe registrato il sostanziale accordo di tutti i ministri presenti affinché si varino misure “coordinate” per ricapitolare le pericolanti banche europee, Ben Bernanke (numero uno della Federal Reserve americana) rassicura il Congresso statunitense che la Fed è pronta a varare ulteriori misure straordinarie per cercare di imprimere quell’accelerazione ad una ripersa economica ancora troppo debole che rischiano di venir meno dal prossimo gennaio, visto che il “piano per l’occupazione” annunciato da Barack Obama a settembre appare già “morto” e che scadranno le ultime proroghe agli incentivi fiscali attualmente vigenti e i mercati che fanno? Naturalmente rimbalzano!
Guidati, come c’è da giurare in questi casi, da quegli stessi titoli che fino a ieri gli investitori buttavano letteralmente dalla finestra per evitare di rimanere incastrati in situazioni ancora peggiori, come quella in cui sembra incappata Dexia, istituto franco belga pesantemente esposto nei confronti della Grecia e che con tutta probabilità finirà “spezzettato” per linee nazionali (il portafoglio di prestiti municipalizzati francesi ad un fondo venture controllato indirettamente dal Tesoro di Parigi, le attività bancarie belghe a qualche soggetto individuato da Bruxelles, la controllata turca Denizbank e la divisione di asset management a chi avrà i soldi per comprarseli).
Così nonostante Moody’s abbia tagliato di ben tre notch (gli “scalini” che contraddistinguono la scala di valori dei rating) il merito di credito dei titoli di stato italiani da “Aa2” a “A2” e abbia mantenuto, quel che è peggio, un outlook negativo che indica che sono possibili ulteriori tagli, aggiungendo che tutti i principali paesi europei sono a rischio bocciatura e nonostante che, nuovamente, esponenti del Fondo monetario internazionale (il mese scorso era stato il direttore generale ed ex ministro francese dell’Economia, Christine Lagarde, ora è toccato a Antonio Borges, direttore del dipartimento europeo dell’Fmi) abbiano segnalato come l’impatto di una svalutazione agli attuali livelli di mercato dei titoli di stato in portafoglio alle maggiori banche europee richiederebbe un’iniezione di mezzi freschi per 100-200 miliardi di euro (ma molte banche d’affari hanno indicato cifre tra i 200 e i 400 miliardi a seconda degli aggregati considerati), a salire più di tutti oggi sono i titoli dei maggiori gruppi bancari e assicurativi europei.
Scorrendo l’indice Eurostoxx50, infatti, i guadagni più vistosi toccano oggi al Credit Agricole, ad Allianz, ad Axa, a Bnp Paribas, a Deutsche Bank e ad ING Groep (peraltro impegnata nella progressiva cessione delle attività bancarie, come richiesto al momento del via libera Ue agli aiuti di stato che hanno evitato il fallimento del gruppo olandese già nel 2008). La musica non cambia neppure a Wall Street dove già ieri sera i rialzi più vistosi erano stati appannaggio di titoli come Citigroup, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley. Quest’ultima, particolare da non trascurare, registra da tempo un continuo aumento del Cds (Credit default swap, costo necessario ad assicurarsi contro l’ipotesi di un fallimento dell’emittente) che hanno portato la banca a raggiungere e superare il livello dei Cds di banche come Intesa Sanpaolo, UniCredit o gran parte dei gruppi finanziari europei.
Facendo notare ad alcuni analisti una sinistra similitudine con quanto accaduto a Lehman Brothers (che ancora prima di fallire godeva, peraltro, di un invidiabile ma evidentemente fallace rating di “AAA” ossia sembrava rappresentare il massimo dell’affidabilità). Fortunatamente almeno in ambito finanziario la storia tende a non ripetersi o almeno a non ripetersi in maniera identica, perché i mercati nel loro complesso paiono avere una memoria migliore dei singoli investitori (e forse dei corpi elettorali dei singoli paesi), per cui non è detto che il finale attuale debba per forza essere simile a quello di tre anni or sono. Purché al di là delle voci (come quella del fantomatico piano da 3 mila miliardi di euro, mai pervenuto ad alcuna ufficialità) si decida cosa fare e come farla, valutando pro e contro di ciascuna soluzione.
Anche perché non esistendo pasti gratis ogni opzione ha un suo costo e se sarà necessario ricapitalizzare occorrerà capire chi metterà i soldi. Gli stati europei non sembrano essere nella condizione di farlo più di tanto, gli Usa neppure, la Cina e le autocrazie petrolifere potrebbero ma il prezzo politico (e le contropartite economiche) rischia di essere elevato. D’altra parte la scorciatoia dell’inflazione appare poco probabile, con la Bce che rimane restia ad abbassare nuovamente i tassi (e sembra piuttosto propensa a fornire ulteriori iniezioni di liquidità con operazioni a medio e lunga scadenza o a riacquistare altri bond sul mercato), ed è meglio così dato che il costo finirebbe con l’essere pagato, ancora una volta, dai tax payer indistintamente a vantaggio di chi ha saputo giocare con disinvoltura la carta del “moral hazard” (come già tre anni or sono) e dei soliti “furbi” (che le tasse non le pagano).