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Opinioni

Borsa: le banche tornano a tremare, con l’aumento dei tassi i nodi arrivano al pettine

Giornata nera per le banche italiane in borsa, con Unicredit, Mps e Banca Carige ancora una volta tra le peggiori. Con un possibile aumento dei tassi in arrivo, il tempo per fare pulizia di bilancio sta scadendo e il rischio di doversene accollare i costi aumenta per azionisti e obbligazionisti…
A cura di Luca Spoldi
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E’ bastato che il vice presidente della Federal Reserve di Boston, Eric Rosengren, sia tornato venerdì pomeriggio a far intendere che nonostante gli ultimi dati macroeconomici statunitensi relativamente deboli la Federal Reserve potrebbe alla fine rompere gli indugi e rialzare i tassi (di un quarto di punto, da 0,5% a 0,75%) già il prossimo 21 settembre, quando la banca centrale americana aggiornerà le proprie stime su crescita e inflazione, perché i mercati finanziari di tutto il mondo tornassero in fibrillazione.

Confermando la sua fragilità, la borsa di Milano è stata oggi quella che ha pagato pegno più di tutti, complici robuste prese di profitto scattate sui titoli finanziari, che pure a rigor di logica avrebbero solo di che guadagnare da un graduale riavvicinamento dei tassi d’interesse mondiali verso livelli “normali”, visto che proprio i tassi di mercato sotto zero o di poco superiori se fanno la gioia dei debitori (sui mutui a tasso fisso a 10 anni si paga al momento tra l’1,2% e il 2,2% a seconda dei singoli istituti, sui 30 anni si sale tra l’1,7% e il 2,7%) spesso riescono a malapena a far registrare un modesto profitto ai creditori (che è vero che possono approvvigionarsi a costi prossimi a zero presso la Bce, ma debbono poi scontare il costo del credito).

A pesare sono considerazioni che, ancora una volta, riportano al centro dell’attenzione la fragilità dell’intera economia italiane e in particolare del suo settore creditizio, su cui gravano complessivamente 400 miliardi di crediti deteriorati la metà dei quali rappresentati da sofferenze (ossia crediti che, ben che vada, saranno rimborsati con percentuali che possono variare tra il 15% e il 30% a seconda del singolo debitore). Se la Federal Reserve deciderà infatti di alzare i tassi prima delle elezioni americane e non a fine anno, Mario Draghi potrebbe aver difficoltà a estendere ulteriormente il programma di quantitative easing che al momento è in scadenza il prossimo marzo.

Questo a sua volta vorrebbe dire, di fatto, mettere paesi come l’Italia davanti alle proprie responsabilità, impedendo di concedere ulteriore tempo per cercare di far ripartire a debito una ripresa che, come confermano gli ultimi debolissimi dati diffusi oggi dall’Istat, non solo resta evanescente ma è contraddistinta da un ulteriore calo della produttività (già il tallone d’Achille dell’economia tricolore nei confronti dei suoi principali concorrenti), visto che le ore lavorate sono aumentate pur a fronte di una variazione nulla del Prodotto interno lordo.

Segno che le riforme strutturali finora varate, sul lato dell’offerta, non sono servite praticamente a nulla, essendosi in particolare notato un nuovo calo degli investimenti, in particolare in innovazione. A pagare il conto più salato in questi casi sono i titoli più in vista e infatti tra i cali più marcati, come Unicredit (-3,5%), di cui un articolo del Wall Street Journal ha sottolineato la delicata situazione, data la doppia sfida di ridurre il portafoglio di sofferenze e crediti deteriorati e di rafforzare il capitale tramite cessioni e aumento.

Ma anche nomi come Mps, come Unicredit alle prese con la ristrutturazione e rafforzamento del capitale, ma ancora in attesa di un nuovo numero uno (il cui nome potrebbe essere sottoposto già domani alla Bce per un placet preventivo) e Banca Carige (-1,2%), non hanno certo brillato. Non a caso questi istituti dovrebbero cedere nei prossimi mesi/trimestri rispettivamente la bellezza di 20 miliardi, di 27,7 miliardi e di 1,8 miliardi di sofferenze, cui vanno sommati i 5 miliardi che dovrebbe cedere Banca popolare di Vicenza (per la quale già si parla di un altro aumento da almeno 500 milioni) e i 3,5 miliardi che dovrebbero essere ceduti da Veneto Banca.

Facciamo due conti: a Unicredit la vendita “al meglio delle sofferenze rischia di costare almeno 3 miliardi, a Mps 5 miliardi, a Banca Carige 500 milioni, un miliardo a BpVi, altri 500 milioni o più a Veneto Banca. In tutto la pulizia di bilancio di soli questi cinque istituti alleggerirà il sistema di circa 54-55 miliardi di euro di sofferenze (un 25% del totale), ma costerà una decina di miliardi che andranno trovati vuoi cedendo “gioielli della corona”, vuoi raccogliendo sul mercato o tramite fondi come Atlante nuovi capitali.

In questo momento vista la debolezza della crescita e la necessità di rinnovare i modelli di business anche per tener conto delle sfide della rivoluzione tecnologica in atto, investitori disposti a sottoscrivere “a scatola chiusa” aumenti di capitale per miliardi di euro di banche italiane non se ne trovano molti, anche se il governo sta cercando in tutti i modi di sollecitare investitori domestici e internazionali a intervenire.

Quanto passerà prima che si torni a invocare una “soluzione di sistema” che assomigli a una “bad bank” a carico dei contribuenti italiani? Le regole europee (per fortuna dei contribuenti tutti) non lo consentono se prima non si passa attraverso la procedura di “bail in”, ossia prima azzerando il residuo valore delle azioni degli istituti in crisi, poi convertendo le obbligazioni emesse dagli stessi, in base al grado di pericolosità/carenza di garanzie delle stesse, infine eventualmente anche imponendo ai grandi correntisti di rinunciare a parte dei propri capitali.

Che la situazione resti a dir poco precaria lo va dicendo ai quattro venti da quasi due anni un economista come Corrado Carnevale Maffè, che il mercato, dopo la pausa estiva, possa iniziare a scontare quanto meno il rischio insito in tale scenario è sempre più probabile. Seguiranno proclami a favore delle varie soluzioni alternative, dall’ulteriore taglio dei costi alla rimozione del management, ma a poco servirà se l’economia non tornerà a crescere e se le banche italiane non sapranno trovare un modo più proficuo e utile di esercitare le proprie funzioni.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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