A suo modo è un accordo epocale, ma il via libera dato ieri dai capi di governo dei 27 (e della Croazia che dal prossimo luglio sarà il ventottesimo paese ad aderire all’Unione europea) al budget Ue 2014-2020, per la prima volta di portata inferiore al precedente (960 miliardi di impegni, pari all’1% del reddito nazionale lordo dell’intera Unione e 908 miliardi di pagamenti preventivati, pari allo 0,95% del reddito lordo complessivo, contro i 1047 miliardi di impegni inizialmente preventivati e i 994 miliardi del budget 2007-2013) anche se non sotto quota 900 miliardi di impegni come chiedeva la Gran Bretagna, non sembra a molti la migliore ricetta per garantire la ripartenza dell’economia dell’Unione né per superare le ancora evidenti differenze tra i paesi del Nord come la Germania, in grado di attrarre investimenti dall’estero, di vedere flussi di capitali riversarsi sui propri titoli di stato abbattendone i rendimenti e contemporaneamente di avere abbastanza ordini dall’estero per compensare la frenata della domanda interna, e quelli del Sud come Spagna o Italia che mese dopo mese vedono crescere la l’inoccupazione, in particolare quella giovanile e calare la produzione industriale, con una spada di Damocle che continua a essere sospesa sopra i propri titoli di stato e con esportazioni che solo apparentemente reggono perché il crollo della domanda interna riduce più rapidamente le importazioni delle esportazioni.
Non ci si poteva del resto aspettare molto di più: la Ue resta al momento una costruzione burocratica intergovernativa, molto lontana da quell’ideale di “Stati Uniti d’Europa” cui alcuni sperano si riesca a giungere per sanare una volta per tutte le divergenze esistenti tra i vari stati membri, con una graduale cessione di sovranità in ambito non solo bancario ma anche fiscale ed economico che consenta una perequazione delle differenze tra macroregioni. Perequazione che molti stati, Italia in testa, non sono mai riusciti a realizzare efficacemente tra il proprio Nord e il proprio Mezzogiorno e che pertanto resta un auspicio più che una concreta possibilità, ma tant’è. Se non altro le trattative hanno consentito all’Italia, dal 2007 contribuente netto del bilancio dell’Unione (e dal 2011 primo contribuente in assoluto), tanto per smentire alcuni luoghi comuni, di ottenere fondi aggiuntivi per 3,5 miliardi di euro nell’arco del budget rispetto alla prima proposta del presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, presentata lo scorso novembre. In più il Belpaese pagherà circa 700 milioni di euro di contributi in meno, con un saldo netto negativo che passa dunque da 4,5 a 3,8 miliardi di euro annui, con un peso che cala rispetto al reddito nazionale lordo dallo 0,28% allo 0,23%.
Non c’è comunque molto di che sorridere: la linea del “rigore” che ha unito in questa battaglia la cancelliera tedesca Angela Merkel e il premier inglese David Cameron è passata con ben poche concessioni a chi come il presidente francese François Hollande e il presidente della Commissione Ue Jose Manuel Barroso da tempo chiedeva maggiori trasferimenti di risorse dagli stati nazionali alla Ue per avviare concretamente un’unione federalista in grado di prendere in mano le redini della ripresa. Visto peraltro la qualità e la tipologia di interventi, largamente destinati a sussidi all’agricoltura e allo “sviluppo” delle aree più arretrate, non è detto sia un male che questo trasferimento non sia avvenuto. Tuttavia l’Italia, a conti fatti, resta tra i primi tre contribuenti netti per i prossimi sette anni quando per le condizioni economiche e sociali in cui si trova potrebbe e dovrebbe registrare se non un saldo netto positivo almeno un sostanziale pareggio tra quanto versa e quanto riceve dalla Ue. Che poi i fondi Ue spesso non vengano neppure utilizzati completamente e anche quando lo sono non sempre lo siano al meglio è ancora un altro discorso.