Il Nord-Est operoso e intraprendente, quello che usciva dalla Seconda Guerra Mondiale con la fame negli occhi, poche lire in tasca e tante idee, non esiste più. O almeno non esistono più alcune delle dinastie industriali, in particolare nel settore tessile, tra i più colpiti dalle crisi susseguitesi nell’ultimo decennio.
I primi a subire la maledizione del passaggio generazionale furono i Marzotto, divisi da una guerra intestina tra i due rami principali della famiglia e colpiti duro dalla crisi del 2007 che portò gli asset del gruppo nelle mani di vari fondi di private equity: Permira acquisì nel 2007 il controllo di Valentino Fashion Group, rivendendo nel 2012 a Mayhoola il marchio Valentino e a Emerisque Brands la Mcs, mentre la famiglia usciva definitivamente di scena, peraltro con laute plusvalenze.
Sono seguiti poi gli Stefanel, che hanno provato a tener duro ma meno di un mese fa hanno presentato la domanda di concordato preventivo “in bianco” (ossia riservandosi di chiedere l’omologazione di un nuovo accordo di ristrutturazione del debito con le banche) e stasera hanno visto il titolo crollare a 8,22 centesimi per azione (-11,7%), sul nuovo minimo storico, sempre più distante dai 12-14 euro delle quotazioni del biennio 2005-2006.
Ora potrebbe toccare ai Benetton, dopo la clamorosa ma non inattesa, se è vero che la decisione risalirebbe a un mese or sono, uscita di scena di Alessandro, figlio di Luciano, dal Cda di Benetton Group. La crescente concorrenza dei produttori e delle grandi catene distributive mondiali prima, la crisi della domanda italiana poi, accompagnata dalle difficoltà del settore del credito, hanno reso più facile optare per una trasformazione da imprenditori in rentier che non provare a perseguire una rinnovata missione industriale.
Proprio l’esempio più recente, quello dei Benetton, pare la conferma più clamorosa di questo stato di cose: Alessandro Benetton da tempo era entrato in rotta di collisione con la strategia seguita dallo zio Gilberto, che puntava ad una gestione sempre più manageriale dello storico marchio di Ponzano Veneto così come già fatto con Autogrill, World Duty Free e Atlantia.
Una gestione che lascia poco spazio alla famiglia se non il ruolo di azionisti di controllo e porta ad aprire il capitale a nuovi partner industriali e finanziari in grado di garantire quel recupero dimensionale che il taglio dei costi, dei negozi meno redditizi e dei mercati marginali ha fatto perdere nel corso degli anni per riuscire a recuperare una redditività sufficiente a garantire una adeguata rendita ai capitali investiti.
La scelta di privilegiare il rendimento del capitale anziché un avvicendamento e nuove idee imprenditoriali sembra alla base della rottura di Alessandro, ormai “erede non designato” della dinastia, che pertanto lascia in anticipo il Cda di Benetton Group prima dell’arrivo, previsto nel 2017, dell’ex amministratore delegato di Telecom Italia, Marco Patuano nel ruolo di amministratore delegato, e di Fabio Cerchiai (attuale presidente del Cda di UnipolSai), destinato a succedere a Gilberto Benetton alla presidenza.
Cosa farà ora Alessandro, classe 1964, per il momento ancora membro dei Cda di Edizione e di Autogrill, oltre a continuare ad occuparsi a tempo pieno di 21 Investimenti, la società di private equity da lui stesso fondata? Potrebbe imitare Lapo Elkann e trasformarsi in un imprenditore a tutto tondo, oppure potrebbe continuare ad utilizzare le leve della finanza per rilevare partecipazioni in qualche business promettente.
Di certo la crisi delle grandi famiglie imprenditoriali italiane, non solo del Nord Est (basterebbe ricordare il destino dei Gucci, dei Gancia, dei Pirelli, degli stessi eredi Agnelli) dimostra come ancora il paese stenti ad affrontare la staffetta generazionale che pure da anni è alle porte e a trovare un nuovo ruolo agli eredi dei fondatori. Segno forse che la crisi ha radici più profonde, e culturali, che non solo gli aspetti economici.