Mentre gli italiani riescono ancora una volta a farsi distrarre dal teatrino politico-economico nazionale ed europeo, che insiste su temi risibili come i processi di Silvio Berlusconi e le relative polemiche (il cui esito non influirà sulla vostra possibilità di trovare lavoro) o il ritiro delle monete da uno o due centesimi di euro (che non vi garantirà un reddito disponibile superiore), a me viene sempre più spesso la sensazione che debbono aver provato i passeggeri di quel famoso transatlantico che 101 anni fa colò a picco nell’Atlantico provocando una sciagura rimasta impressa nella memoria storica mondiale non solo a causa dell’eccezionalità dell’evento, quanto perché la nave, “inaffondabile” fin dal nome, “Titanic”, rivelò avere molte meno scialuppe di salvataggio di quante erano necessarie (tanto che la maggior parte delle vittime morì assiderata nelle gelide acque dell’oceano, non per affogamento o altro.
Mi fa pensare di essere su un Titanic di dimensioni nazionali leggere storie come quelle di Giovanni Guarascio, un muratore sessantaquattrenne di Vittoria (Rg) che si è dato fuoco per cercare di non perdere la propria casa, messa all’asta per un debito di 10 mila euro con “una banca” (e aggiudicata per 26 mila euro). Non è solo la vicenda in sé che fa riflettere, quanto le omissioni che la circondano. I nomi dei protagonisti sono ben chiari, meno chiaro è come sia stato possibile che dal 2001 ad oggi l’uomo non sia riuscito a racimolare una cifra tutto sommato esigua ed estinguere il suo debito (o finanche ricomprarsi la casa all’asta). Ancora meno chiaro il nome dell’istituto coinvolto “suo malgrado” nella vicenda: in Italia potete sentirvi recitare a memoria in televisione interi annali del campionato calcistico professionista ma state certi che se tentate di scrivere qualcosa che sia meno che positivo sul conto di banche, assicurazioni o reti di promozione finanziaria, è facile che non troviate più un giornale o un sito disposto ad ospitare i vostri articoli per timore di perdere quel poco di pubblicità che rimane in giro, specie di questi tempi (discorso che vale peraltro anche per altri soggetti, dalla telefonia al settore energetico e petrolifero).
Per poter sperare in un futuro che non sia solo una lunga sequenza di repliche dell’episodio disperato di cui sopra occorrerebbe vedere qualche segnale di ripresa. Ma puntualmente oggi l’Istat e gli altri istituti statistici europei si sono premurati di toglierci ogni illusione al riguardo: in Italia, ma anche in Francia e nel resto di gran parte d’Europa, la ripresa è una chimera più che un auspicio e tale rischia di rimanere anche nei prossimi mesi “nonostante tutto”. Il “tutto” dipende in gran parte, per il momento, dalle istituzioni bancarie europee, vale a dire dalla Bce di Mario Draghi, che come annunciato sta cercando di far giungere il credito alle Pmi europee studiando se e come accettare anche mutui e prestiti cartolarizzati come collaterale per le proprie operazioni di rifinanziamento bancario, e dalla Bei (Banca europea degli investimenti) di Philippe Maystadt, che ancora di recente ha sottolineato l’importanza di tornare a concedere prestiti, mirati, alle Pmi europee se si vuole far ripartire la crescita e il lavoro.
In particolare dopo i 10 miliardi di finanziamenti destinati a tale scopo da Mario Draghi lo scorso anni, la Bei ha in programma di concedere ulteriori 15 miliardi di euro di nuovi finanziamenti nel triennio 2013-2015 e sta studiando nuovi strumenti “per alleviare la stretta sul credito delle Pmi” europee, “tenendo a mente l’esperienza della crisi dei subprime”. Programmi concreti sono già stati avviati in Grecia e in Portogallo e se è vero che le cifre finora annunciate (500 milioni di “trade finance facility” per sviluppare fino a 1,5 miliardi di euro di nuovi scambi commerciali in Grecia, 6 miliardi di nuovi finanziamenti “nei prossimi anni” in Portogallo) appaiono ancora molto modeste e al di sotto delle necessità dei singoli paesi, è pur vero che si tratta dei primi timidi tentativi di spostare l’attenzione dalla repressione fiscale agli strumenti a sostegno della crescita.
Sempre sperando che i governi (tra cui quello italiano) abbiano la forza di avviare riforme strutturali che riducano la burocrazia, aumentino la competitività e l’apertura alla concorrenza dei vari settori economici e in generale promuovano nuovi investimenti diretti dall’estero. Tutte misure che si sarebbero dovute attuare, e non lo sono state, almeno da 15 anni, il periodo in cui, guarda caso, il Pil italiano ha smesso di crescere in termini reali. Farlo ora sarà tardivo, parziale e doloroso, ma anche nel caso del Titanic è stato tardivo, parziale e doloroso calare a mare le poche scialuppe disponibili. Qualcuno ha idee migliori?