Anche la “arcigna” Ue non ha nulla da eccepire al salvataggio delle due ex banche popolari venete Banca popolare di Vicenza (Bpvi) e Veneto Banca da parte di Intesa Sanpaolo tramite una procedura che qualche osservatore ha già ribattezzato “spaghetti bailout” e che addosserà la maggior parte del rischio e dei costi sui contribuenti italiani, visto che a fronte di oltre 5 miliardi di euro versati subito dallo stato per “ricostituire i fondi propri del cessionario per un ammontare idoneo a fronteggiare l’assorbimento patrimoniale derivante dalle attività ponderate per il rischio acquisito”, alla SGA (Società gestione attivi, la bad company che ereditò le attività deteriorate del Banco di Napoli 20 anni fa) andranno 12 miliardi di attivi che tali potrebbero non essere.
Infatti con l’intervento approvato per decreto dalle autorità italiane dopo che la Bce aveva certificato come le due banche fossero sul punto di fallire e quindi non fosse più applicabile la procedure di “ricapitalizzazione precauzionale” (che invece pare essersi sbloccata per Mps) lo stato italiano, dunque i contribuenti, si accolla il rischio che i 18 miliardi lordi di sofferenze assorbite dalle due banche e valutate 10 miliardi netti, e i 2 miliardi di partecipazioni non rilevate da Intesa Sanpaolo, possano valere molto meno. Quanto? Secondo le prime stime preliminari della Commissione Ue la minusvalenza è valutabile ad oggi attorno ai 3 miliardi, ossia gli asset non varrebbero oltre 9 miliari di euro.
La differenza andrà evidentemente ad aumentare il debito pubblico e poco contano gli “auspici” con cui Banca d’Italia ha voluto oggi sottolineare che i 5 miliardi “anticipati” a Intesa Sanpaolo perché la banca possa continuare a pagare ai propri azionisti i dividendi previsti e non aumenti il capitale (come invece ha fatto Banco Santander quando a inizio mese ha rilevato il Banco Popular Espanol con una procedura di “bail in” che non peserà sui contribuenti spagnoli) “certamente” torneranno indietro. Come pure poco importa notare che l’operazione non richiederà ulteriore deficit visto che si useranno i 20 miliardi di risorse previste dal fondo “salva banche” già varato lo scorso anno.
Per uno stato in cui il rapporto debito/Pil è pari al 133% il rischio di rilevare 17 miliardi di asset più o meno “marci” determina un ulteriore rischio attorno all’1% del Pil. E con un Pil che continua a crescere ad un ritmo che, nelle migliori delle ipotesi, è pari a un terzo del costo annuo del debito pubblico, è evidente che per riportare tale rapporto verso un valore più “sano” (e certamente meno “insostenibile” a lungo termine) sarebbero necessari non possibili peggioramenti, ma continui saldi primari tra il 3% e il 5% del Pil per anni e anni a venire. Ossia una medicina “lacrime e sangue” come finora non si è mai visto, neppure nei momenti più bui della Repubblica Italiana, se non si vuole un giorno dover dichiarare default sul debito.
Certo, mercato e analisti per ora fanno festa, perché come notano gli esperti del Credit Suisse l’operazione così prospettata “è positiva per Intesa Sanpaolo e rappresenta un lieto fine per le banche italiane”, almeno nel senso di rimuovere la percezione di rischio sistemico che la crisi di Bpvi e Veneto Banca (e Mps, e Banca Carige e tanti altri istituti di medie e piccole dimensioni, a partire da Banca Marche, Banca Etruria, CariChieti e CariFe) avevano contribuito a far aumentare.
Ma oltre al costo per i contribuenti, il frutto più avvelenato di questa vicenda rischia di essere (siamo nel campo delle ipotesi, naturalmente) un eventuale e definitivo fallimento dell’unione bancaria e fiscale europea. Che può essere, beninteso, una precisa scelta politica ma che andrebbe in questo caso esplicitata nei suoi prevedibili aspetti positivi (l’ennesimo allungamento dei tempi di maturazione e risoluzione della crisi bancaria italiana, per dar modo di spalmare su più anni esuberi che paesi come la Spagna hanno visto concretizzarsi nel giro dell’ultimo biennio) sia negativi (un graduale ma inesorabile aumento del costo del funding per banche e imprese italiane).
Per essere ancora più chiari: se finora la Germania ha puntato i piedi evitando di dare il via libera alla nascita di Eurobond che mutualizzassero i debiti dei paesi aderenti a Eurolandia, temendo che qualche paese come l’Italia ne approfittasse per scaricare sulle spalle dei contribuenti tedeschi il costo di anni di gestioni dissennate e dissolute di banche, aziende statali e parastatali e gruppi privati “troppo grandi per fallire”, credete che questa vicenda convincerà Berlino che aveva torto o ragione?
E secondo voi la vicenda porterà il successore di Mario Draghi (con buone probabilità Jens Weidmann, numero uno di Bundesbank) ai vertici della Banca centrale europea a prorogare le misure straordinarie come tassi sotto zero e programma di acquisto dei bond sul mercato che hanno protetto il debito pubblico italiano da una crisi come quella scoppiata nel 2011, o a interromperle quanto prima possibile?
Ultimo ma non meno interessante corollario: visto che la vicenda Bpvi-Veneto Banca sembra conclusa, il fondo Atlante potrà usare (e userà) i residui 1,65 miliardi di euro in cassa per rilevare le tranche mezzanina e junior (le più rischiose) della cartolarizzazione di crediti deteriorati (Npl) di Mps. Se il controvalore delle tranche sarà, come si pensava l’estate scorsa, di circa 7 miliardi complessivi (su 27 miliardi circa di Npl lordi da cartolarizare) e 1,65 miliardi fosse il prezzo d’acquisto, Atlante verrebbe a valutare questi asset il 23,5% del loro valore lordo.
Una valutazione decisamente “generosa” per il cessionario, visto che Unicredit quando cedette a inizio anno portafogli di importi paragonabili ottenne una valutazione media del 18% (ma sulla tranche più rischiosa la valutazione fu più bassa). E’ vero che Atlante potrebbe gestire in modo più oculato e su un orizzonte temporale più lungo queste esposizioni, ma anche in questo caso sui sottoscrittori del fondo, ossia banche, assicurazioni e Poste Italiane, graverebbe un rischio superiore a quello di mercato a fronte di un rendimento che potrebbe rivelarsi pari o inferiore.
Nel complesso lo “spaghetti bailout” che addossa così malamente gli oneri sui contribuenti italiani dopo aver tentato di riversarli sulla parte sana del sistema bancario non sembra una procedura migliore del tanto temuto e vituperato “bail in” che l’Unione europea aveva deciso che ogni stato avrebbe dovuto seguire. O meglio ogni stato meno l’Italia, che forse per il suo status di “elefante nella cristalleria” ha ottenuto un trattamento di favore. Chi godrà del favore e chi ne dovrà pagare gli oneri si capirà solo col tempo, ma le premesse non sembrano le migliori, come minimo.