Nuova mossa di Mario Draghi per tentare di levare qualche castagna dal fuoco ad un sistema bancario europeo che ancora presenta vistose discrepanze e che rischia di arrivare alla futura unione bancaria in ordine sparso e senza che questo possa segnare realmente quel processo di unificazione che sarebbe indispensabile per sperare di riassorbire le differenze macroscopiche che ancora esistono tra i sistemi economici dei 17 aderenti all’area dell’euro. La Bce ha infatti deciso di non richiedere alle banche che saranno sottoposte agli stress test previsti nell’ambito della procedura di Quality asset review avviata in queste settimane (i cui risultati saranno resi noti a ottobre) di rafforzare ulteriormente il proprio capitale per evitare che il “Tier 1 common ratio”, ossia il capitale posto a garanzia di prestiti e asset a rischio, scenda sotto il 6% anche nell’ipotesi più avversa delle simulazioni. In pratica le banche non dovranno procedere a ulteriori aumenti o dismissioni di attività rispetto a quanto già emerso in questi mesi.
Una buona notizia per le banche italiane, che al momento vedono, tra i maggiori istituti, solo Mps (3 miliardi di euro), Bpm (500 milioni di euro) e Banca Carige (l’importo resta imprecisato ma dovrebbe risultare nell’area tra i 500 e gli 800 milioni di euro) impegnate nell’esecuzione di aumenti di capitale da qui ai prossimi mesi e di certo entro ottobre. Non solo: le banche non dovrebbero neppure adeguare ad una valutazione “mark to market” (ossia allineata a quella delle quotazioni correnti) la valutazione del proprio portafoglio di titoli di stato. Ulteriore buona notizia per un sistema come quello italiano che secondo gli ultimi dati di Bankitalia vede le banche tricolori detenere oltre 400 miliardi di titoli di stato (altri 200 miliardi sono detenuti dalle nostre maggiori assicurazioni) a fronte di oltre 690 miliardi in mano a investitori esteri.
Le banche tedesche e francesi avevano già avuto di che gioire a inizio settimana dopo che nel weekend a Basilea i banchieri centrali e i capi della vigilanza bancaria del vecchio continente avevano raggiunto un accordo per una definizione comune del “leverage ratio”, l’indice di leva finanziaria, che ora il Comitato di Basilea dovrà monitorare e calibrare, adeguando eventualmente la definizione, sino al momento in cui l’indice si trasformerà, dal primo gennaio 2017, in un requisito patrimoniale minimo (nell’ambito del cosidetto “primo pilastro”). Un accordo che di fatto riduce il rischio di definizioni più stringenti che avrebbero richiesto un’ulteriore riduzione, in tempi rapidi, della leva finanziaria, per gli istituti tedeschi e francesi più elevata di quella tipica degli istituti italiani. Tutti contenti o quasi, dunque, ma basterà il lavoro di Draghi e dei suoi colleghi banchieri per porre finalmente fine alla crisi banco-sovrana europea?
Su questo punto qualche dubbio è lecito: più la Bce cercherà di armonizzare le condizioni di accesso al credito in tutta Eurolandia più gli spread tra titoli di stato (oltre che il costo del credito) tenderanno a livellarsi. Qualcosa già si è vista con la chiusura di ieri dei mercati obbligazionari: se il Btp decennale benchmark ha visto il rendimento ridiscendere al 3,86%, il Bund tedesco lo ha visto risalire all’1,83% e l’Oat francese è arrivato al 2,48%. Lo spread Btp-Bund cala dunque al 2,03%, mentre quello Oat-Bund sale allo 0,65% e per molti è destinato a crescere ulteriormente dato il differente scenario macro e andamento dei conti pubblici dei due paesi europei. A guadagnare maggiormente degli sforzi di Draghi sono per ora paesi come l’Irlanda, il Portogallo o persino la Grecia che sono usciti o stanno per uscire (o, nel caso di Atene, sperano di riuscire a uscire) dalla procedura di “bailout”.
I titoli decennali di Lisbona ad esempio pagano ormai il 5,12%, con un calo nella sola giornata di ieri di 13 punti base e uno spread che ridiscende al 3,29%, l’Irlanda nella recente emissione del nuovo decennale è riuscita a pagare appena il 3,54%, persino la Grecia vede i suoi decennali ridiscendere a livelli “quasi” normali (7,60% ieri, 6 punti base meno del giorno prima). L’unico dubbio che resta è se (o fino a quando) la Germania accetterà un’ulteriore compressione degli spread, che come si è capito nelle ultime settimane non potrà avvenire solo attraverso un calo dei sovra rendimenti pagati dai titoli degli emittenti “periferici” come Spagna e Italia bensì, complice anche la tendenza rialzista di sottofondo dei tassi sui mercati obbligazionari occidentali innescata dalla decisione della Federal Reserve di iniziare a ridurre gli acquisti di bond sul mercato (con l’intenzione, probabilmente, di azzerarli del tutto entro fine anno), anche tramite un incremento dei rendimenti dei titoli tedeschi.
Rendimenti più alti sui titoli di stato si legano di solito a un maggior costo del denaro per le imprese (in questo caso tedesche) e dunque al venir meno di una delle più importanti leve strategiche, assieme alla moderazione salariale (che sta già venendo meno), di cui hanno potuto in questi anni godere le imprese di Berlino rispetto ai loro concorrenti del Sud Europa. Una buona notizia per le aziende italiane, ma è prevedibile che se il fenomeno dovesse iniziare a intaccare in maniera meno che marginale la competitività teutonica il cancelliere Angela Merkel potrebbe tornare a mettere qualche bastone tra le ruote di Draghi. Un motivo in più per sperare che sul tema delle riforme economiche (e amministrative) si passi anche a Roma, finalmente, dalle parole ai fatti, indipendentemente dall’andamento degli stress test bancari e degli spread sui titoli di stato, che peraltro con un debito pubblico di ormai 2.104 miliardi restano il fattore chiave a cui guardano i mercati finanziari.