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Opinioni

Banche: non solo Mps, anche Unicredit e Carige sono a rischio aumento

Dopo gli stress test Eba sono scattate copiose vendite sui titoli bancari in borsa. Ma a sorprendere non sono stati i risultati, quanto la decisione di Mps di alzare il livello di copertura su inadempienze probabili e scaduti. Vuol dire che le banche tricolori sono più a rischio di quanto finora abbiano ammesso banchieri e politici…
A cura di Luca Spoldi
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Banche sempre sotto pressione in borsa, nonostante dai risultati degli stress test Eba siano emersi risultati in linea con le attese, che rendono però secondo gli analisti sempre più probabile un aumento di capitale tra 4,5 e 8,5 miliardi di euro per Unicredit ed uno da circa 500 milioni per Banca Carige se entrambe le banche vorranno raggiungere un Core equity tier 1, nel 2018, in linea con la media europea anche nello scenario più avverso.

Potenzialmente a rischio anche Bpm (mentre non lo è Banco Popolare, che supera l’esame nonostante negli stress test non si sia tenuto conto dell’aumento da un miliardo condotto con successo poche settimane fa), tuttavia avendo l’aggregato Bpm/Banco Popolare già negoziato con la Bce un piano di riduzione degli Npl da 9 miliardi di euro ed apparendo in grado di sbloccare almeno 1 miliardo di capitale tramite cessioni (anche mediante joint-venture) di “fabbriche prodotto” controllate, non dovrebbero esserci problemi né necessità di chiedere altri soldi al mercato.

Delle altre banche italiane sottoposte al test Intesa Sanpaolo e Credem si sono confermate tra le prime della classe in Europa, mentre anche Bper e Popolare Sondrio non hanno avuto particolari problemi, pur evidenziando qualche carenza di capitale nello scenario più avverso (i test, condotti sui risultati di fine 2015, hanno provato a valutare come gli istituti sarebbero usciti dall’avverarsi di tre scenari, dal più ottimistico al più negativo) che tuttavia pare agli analisti gestibile tramite azioni di “ordinaria gestione” come tagli dei costi e dismissioni di attività non strategiche.

L’unica altra grande banca italiana che ha mostrato qualche debolezza è stata Ubi Banca con una significativa carenza di capitali nel caso peggiore, ma un indice “texas ratio” basso e comunque buoni risultati nello stress test vero e proprio. Alla luce di questo risultato c’è solo da augurarsi che il piano di Mps (cessione di tutti i 27,7 miliardi di euro di sofferenze su crediti, aumento di capitale da 5 miliardi di euro destinato a far salire al 67% la copertura su poste, che verranno cedute al 33% del valore lordo di libro, ma anche al 40% la copertura sulle restanti classi di Npl e concessione di warrant a Quaestio Sgr per una quota del 7% di capitale) superi tutti i dubbi emersi sin da venerdì sera, così da stemperare le tensioni.

Il primo dubbio, che riguarda strettamente Mps, è se davvero il mercato recepirà un aumento pari a 5 volte la capitalizzazione di borsa dell’istituto senese, tra i cui soci è destinata a scomparire Fondazione Mps, una volta azionista di maggioranza assoluta ed ormai sotto al 2% e già dettasi non disponibile ad aderire all’aumento. Il secondo dubbio è se tutto andrà come auspicato nella segmentazione delle tranche di cartolarizzazione delle sofferenze.

Se la tranche “senior”, meno rischiosa e quindi potenzialmente meno appetibile, non troverà sufficienti sottoscrittori sarà giocoforza incrementare la tranche junior, più rischiosa, che però come sottoscrittore dovrebbe avere solo il fondo Atlante (o più probabilmente Atlante 2, il quale peraltro continua a registrare molti “no grazie”, l’ultimo da parte di Inarcasse) che quindi non è detto abbia i capitali per aumentare di molto il proprio investimento. E ancora: basterà il 40% di copertura su “inadempienze probabili” e “scaduti” a evitare ulteriori perdite su credito nei prossimi trimestri e anni?

Di certo già aver dovuto alzare dal 32% al 40% la copertura attuale ha fatto capire al mercato come il grado di rischiosità dei crediti concessi in Italia sia mediamente più elevato di quello finora percepito ed ecco che già questo ha contribuito alla nuova raffica di vendite scattata oggi sui titoli bancari in borsa. Il problema alla fine, come hanno sintetizzato gli analisti di Barclays, è che nonostante tutti gli (innegabili) passi in avanti una “soluzione strutturale” per il settore bancario italiano non è emersa (e probabilmente non potrà emergere neppure in futuro).

I soldi che con molta difficoltà si sono trovati sono serviti giusto a evitare la risoluzione di Banca popolare di Vicenza e di Veneto Banca e serviranno a disinnescare la “mina sofferenze” di Mps. Tutti gli altri, a cominciare da Unicredit e Banca Carige, dovranno fare da soli, cercando se possibile di studiare aggregazioni sulla base di considerazioni industriali più che “politiche” come finora in troppe occasioni si è fatto.

E’ una sfida impegnativa, non solo e non tanto a livello di risorse economiche richieste, ma di cambiamento di mentalità e di efficientamento che inevitabilmente avrà ricadute occupazionali negative nel breve e potrebbe contribuire negativamente ad una crescita già gracile e a “rischio Brexit. Ma che l’Italia sia, con le sue banche, il vaso di coccio tra vasi se non di ferro almeno di pietra dura lo si sapeva già da anni, nonostante i disperati tentativi di negare la realtà.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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